Cocooning

Lo spettro dell’oblomovismo

Oblomov nel suo bozzolo. Oleg Tabakov nel film di Nikita Michalkov, 1980.

Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro dell’oblomovismo. Lo spirito indolente di quel «mite fantasma-eroe» con paziente tenacia si è annidato in noi, trasformandoci in maldestri seguaci dell’incompreso filosofo in ciabatte. Una lenta e progressiva metamorfosi che ci ha lasciato in eredità tutti i vizi del nostro sonnecchiante avo, ma non le sue qualità. «Anche se tutto il mondo sarà avvelenato e sovvertito», dirà di lui l’amico Stolz, «Oblomov non si inchinerà mai all’idolo della menzogna, la sua anima rimarrà sempre pura, limpida, onesta». Ed è proprio la brutale onestà del tenero Oblomov, e non la pigrizia, con cui giudica se stesso e gli altri, a tormentare il protagonista del romanzo di Gončarov (1859). «So tutto, comprendo tutto, ma mi mancano la forza e la volontà», confessa dopo l’ennesimo rimprovero dell’amico, ammettendo di aver sprecato tutta la sua vita in «una pigra e tranquilla sonnolenza, come gli altri». «Devi uscire da questo letargo», insisterà Andrej Stolz, «sono tutti quanti dei cadaveri, tutti addormentati peggio di me questi individui che vivono nel mondo e nella società», ribatterà giustamente Oblomov, incalzandolo con una serie di interrogativi che non troveranno risposta: «Che cosa li guida nella vita? Certo, non se ne stanno sdraiati, tutto il giorno si affannano ad andare avanti e indietro come mosche, e a che pro?»; «Forse non dormono per tutta la vita seduti?», si chiede riferendosi a chi si lambicca il cervello con fanti, re e regine (accusa che si potrebbe estendere a chi vegeta davanti a un pc o a uno smartphone); e la gioventù «non dorme forse mentre balla, cammina, si fa scorrazzare per la Prospettiva Nevskij?»; e ancora, gli anziani e tutti coloro che si incontrano per vantarsi o spettegolare, «questi sarebbero gli uomini vivi, la gente che non dorme?», domanda ancora Oblomov per concludere infine che sotto quelle futili chiacchiere si nasconde «l’eterna sonnolenza».

Oblomov vive, al pari dei personaggi che lo circondano, una sorta di «infinito dormiveglia», ma a differenza degli altri appare – nelle parole di Giorgio Manganelli – «in bilico sull’orlo di un sogno», quello della tranquilla Oblomovka, la tenuta paterna immersa nella natura a cui ambisce ritornare. Una vera risposta ai tanti interrogativi di Oblomov non arriverà mai, con Stolz che si limiterà a contrapporre all’elegia agreste dell’amico un’apologia del lavoro degna di un moderno stacanovista («il lavoro è l’immagine, il contenuto, l’elemento e lo scopo della vita»). «E quando si vive?», «Dove è più l’uomo? Cosa diventa, così frantumato e disperso?», dubbi insoluti se non da una sentenza: quella di Oblomov non è vita, ma a ben guardare, nemmeno quella dei suoi detrattori. Nel capolavoro di Gončarov, come ha notato Manganelli, «tutti vogliono vivere e si comportano come se il vivere fosse cosa che da sé sola si giustifica e spiega, ma in realtà perché questo voler vivere abbia dignità e senso, non saprebbero dire. L’unico che “sa”, l’unico che è consapevole della imperfezione della vita è Oblomov». «Dunque» – conclude il fine critico letterario – egli è l’“eroe” del libro, «ma un eroe che può solo vivere la propria estraneità agli altri, dimorare nell’ombra, nel sonno e nel sogno».

Bozzolo

Il salto di specie che dovremmo temere.

Un «mite fantasma-eroe» che ancora aleggia tra noi, divenendo il simbolo di quello che oggi chiamiamo cocooning, termine coniato dalla futurologa newyorkese Faith Popcorn, fondatrice e CEO di BrainReserve, società di consulenza marketing per l’analisi delle tendenze emergenti. Nel suo The Popcorn Report (1991) lo definisce come «il bisogno di proteggersi dalle dure e imprevedibili realtà del mondo esterno», «l’impulso a stare dentro quando l’andare fuori si fa troppo difficile e pericoloso» e «a costruire un guscio di sicurezza intorno a sé per non essere in balia di un mondo malvagio e imprevedibile». Per quanto sia stata lungimirante la “Nostradamus del marketing”, ritroviamo già nell’ottocentesco romanzo russo questa “sindrome” del bozzolo, che altro non è che l’oblomovismo. Ispirandoci al caustico saggio di Pascal Bruckner (v. l’Osservatore n.01/2023) – dove segnala che l’autoconfinamento di Oblomov è «una premonizione rivolta a tutta l’umanità» – ed addentrandoci tra le pagine di quel capolavoro, troviamo infatti già qui la definizione di cocooning. «Quasi niente lo attirava fuori di casa, ed egli si confinò ogni giorno di più nel suo appartamento», così in Oblomov, col passare degli anni, «si erano riaffacciati una specie di infantile timidezza, il timore del pericolo e del male che poteva venirgli da tutto ciò che non rientrava nella sfera della sua esistenza quotidiana».

Il bozzolo dell’ozioso eroe è la sua vestaglia, la co-protagonista del romanzo, entità inscindibile dall’uomo che avvolge e imprigiona. Emblema della pigrizia («indossava una vestaglia di stoffa persiana, tanto ampia che ci si poteva avvolgere dentro due volte»), del dilemma amletico («andare avanti voleva dire strapparsi di colpo l’ampia veste da camera non solo di dosso, ma anche dall’anima»), del momentaneo risveglio («non indossa più la veste da camera» quando si innamora della giovane Ol’ga) e dell’imminente letargo («e se col tempo, la sua vestaglia le diventerà più cara di me…?» si chiederà quest’ultima). L’inizio della fine di Oblomov è segnato quando la massaia Agaf’ja la “riesumerà”. «Ho tirato fuori dal ripostiglio anche la sua vestaglia», dirà lei, «non la porto più, non mi serve più», replicherà ingenuamente lui. La storia d’amore con Ol’ga finirà ed Oblomov si spegnerà con la sua vecchia compagna: «la vestaglia è logora e, per quanto rammendata con cura, cede da tutte le parti: da un pezzo ce ne vorrebbe una nuova». Lo stesso vale per la sua casa, il «nido di pace e pigrizia»: oscura e polverosa in principio, luminosa e pulita nel mezzo, trascurata e sudicia nel finale.

Come sarebbe stata più felice la vita di Oblomov se solo fosse nato nell’era pandemica! Non più biasimato per la paura del mondo esterno, bensì lodato per la sua responsabilità, avrebbe potuto mascherare il suo atavico istinto di conservazione in commovente altruismo, e la sua pigrizia in una meditata scelta etico-sostenibile. Con che classe si sarebbe rifiutato di viaggiare, con la scusa dell’inquinamento globale, e con quale nonchalance avrebbe glissato gli inviti a teatro, millantando di veder gli spettacoli comodamente in poltrona. Ma questo non è Oblomov, siamo noi, che cerchiamo sempre un alibi per mascherare le nostre seppur razionali paure, trasformando in virtù moderne gli antichi vizi del nostro ben più saggio e onesto predecessore. Conviene allora resuscitare l’Oblomov che è in noi, non l’eroe sconfitto, ma l’uomo che non s’inganna e non si lascia sedurre dalle ipocrisie del momento, e che vede oggi trionfare il mito dell’esistenza asettica.

Lucrezia Greppi

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