Editoriale

Mani Pulite, cronaca e storia raccontate da Goffredo Buccini

A trent’anni dalle inchieste su Tangentopoli, con Il tempo delle mani pulite (Laterza 2021) Goffredo Buccini ripercorre con gli occhi di un giovane cronista gli eventi che vanno dall’arresto di Mario Chiesa alle dimissioni di Antonio Di Pietro. Anni densi che hanno travolto l’Italia tra attacchi di mafia, attentati nelle città, inchieste giudiziarie, crollo della classe politica, crisi economica e cambi di legge elettorale. Il giornalista del Corriere della Sera guarda in critica alla stagione di Mani Pulite. La cronaca giudiziaria è finita, dicevano i vecchi giornalisti nei primi anni Novanta. Adriano Solazzo del Corriere e Annibale Carenzo dell’ANSA su tutti. Sembrava che il nuovo Codice di Procedura Penale del 1988 avesse cambiato tutto. Il giudice istruttore era stato cancellato e polizia e carabinieri erano diventati occhi e mani del pubblico ministero, scrive Buccini.

Che offre un ritratto impietoso della Milano dei primi anni Novanta, affaticata dal peso delle tangenti. A farla da padroni erano personaggi come l’assessore all’Urbanistica di Paolo Pillitteri, Attilio Schemmari. O anche Antonio Natali, il padrino politico di Bettino Craxi, presidente della metropolitana milanese, poi incarcerato per tangenti. Buccini fa diversi mea culpa su come vennero riportarti gli eventi; spesso e volentieri con crudezza ed eccessi. «Dall’arresto di Chiesa in avanti abbiamo perso qualcosa di essenziale della nostra funzione, guardando troppo spesso in una sola direzione e non consentendo a tanti lettori moderati e non militanti di formarsi un’opinione davvero indipendente». Buccini racconta che le notizie arrivano da tante fonti. Il consorzio dei giornalisti al Palazzaccio era diviso in Corriere e Giornale contro Repubblica e gli altri.

L’autore ricorda i colleghi del tempo. Lavorava a fianco di Peter Gomez, cronista di giudiziaria sotto Indro Montanelli. Seguivano poi i due neristi di Repubblica, Piero Colaprico e Luca Fazzo. Poi Marco Brando dell’Unità e Fabio Poletti di Radio popolare. Maurizio Losa della RAI, il più anziano tra i giornalisti al Palazzaccio, soprannominato “lo Zio”. E ancora: Filippo Facci dell’Avanti!, Paolo Brosio del TG4, Silvia Brasca e Andrea Pamparana del TG5. Paolo Colonnello del Giorno, Paolo Foschini di Avvenire, Michele Brambilla, corrierista vicino a CL. Ad inchiesta avviata arrivò anche un giornalista dal Messaggero di Roma, uno dei punti di riferimento di Buccini: Alessandro Sallusti. Tutti dirottati alla Procura di Milano allora presieduta da Francesco Saverio Borrelli, figlio d’arte non inviso ai vertici del PSI e con fama di galantuomo.

Di tutt’altra pasta era Di Pietro, uomo avvolto da misteri, con un passato da operaio e una laurea tardiva. Poi segretario comunale, dunque poliziotto. Amico di Pillitteri che lo chiamava Ninì. «Le sue carenze umanistiche lo hanno spinto anima e corpo verso la tecnologia». Buccini conobbe Di Pietro nel 1987 nell’ambito dell’inchiesta sulle patenti facili. Già allora Tonino sgobbava come un mulo nella stanza 254 del Palazzo di Giustizia. Non era ancora nessuno. Fino al 17 febbraio 1992. Il giorno dopo, Ettore Botti mentore di Buccini, gli ordinò di andare al Palazzaccio. «Hanno preso uno grosso, ma chissà se parla». Il “grosso” era Chiesa, il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio colto “con le mani nella marmellata” mentre intascava una tangente da sette milioni.

Di Pietro gli stava addosso da quando aveva raccolto delle prove a partire da un caso di diffamazione contro di lui. Arrestato dal capo dei Carabinieri Roberto Zuliani, il “Kennedy di Quarto Oggiaro” finì diretto al San Vittore. Noto come “Signor dieci per cento” per le tangenti che imponeva su ogni appalto dell’ospizio, rispondeva direttamente al leader del PSI. Aveva anche aiutato il figlio Bobo Craxi ad entrare in Consiglio Comunale a Milano. I primi anni Novanta erano i tempi in cui «la Lira è sotto attacco sui mercati, i soldi scarseggiano e si sta rompendo il patto tra imprenditoria e politica che ha garantito tangenti e appalti. […]. Gli italiani si risvegliano impoveriti dalla sbornia di clientelismo assistenziale e debito pubblico degli anni Ottanta».

A partire dalle confessioni di Chiesa il sistema politico milanese basato sul rapporto tra imprenditori e politici locali iniziò a collassare. Con Mani Pulite emerse un sistema di tangenti che prevedeva la spartizione delle somme in proporzione al peso elettorale delle forze politiche. 25% alla DC, 25% del PSI, 25% dei partiti minori e 25% al PCI-PDS, che otteneva denaro in quote di lavoro per le cooperative. L’inchiesta si estese a macchia d’olio su tutta la Lombardia. Quando Laura Sala, ex moglie di Chiesa, in rotta con il marito che lesinava sugli alimenti, rivelò ai pm i conti segreti in Svizzera, per via del suo legale Nerio Diodà Di Pietro mandò a dire a Chiesa in carcere che «l’acqua minerale è finita». Si riferiva al fatto che aveva trovato i due conti elvetici, denominati Fiuggi e Levissima. A inizio marzo 1992 Craxi scaricò in diretta tv Chiesa; un “mariuolo”.

Scattò la reazione di orgoglio del Presidente della Baggina. Di fronte a Di Pietro e a Italo Ghitti, GIP, parlò del sistema ospedaliero lombardo, delle aziende edili, di manutenzione di forniture. Fece nomi importanti: Giovanni Manzi del PSI, presidente della Sea e Roberto Mongini della DC, vice. Coinvolse anche Epifanio Li Calzi, già sindaco di Cesano Boscone e assessore pidiessino. Chiesa raccontò di avere dato soldi a Carlo Tognoli e a Pillitteri. Il giorno delle elezioni nazionali il Quadripartito aveva ancora la maggioranza in Parlamento, ma la DC scese per la prima volta sotto il 30%. Vennero bocciati nomi illustri quali Guido Carli, Tina Anselmi, Leopoldo Elia, Guido Bodrato, Giacomo Mancini, Emanuele Macaluso, Nino Andreatta e Gianfranco Pasquino. Astensionismo record. Uno dei primi segnali di insofferenza nei confronti della classe politica.

Un segnale di antipolitica era stato dato anche in occasione del referendum di Mario Segni nel 1991 sulla preferenza unica, moltiplicatore di spesa pubblica e di corruzione. Nelle elezioni del 1992 si affermarono Umberto Bossi della Lega al Nord e Leoluca Orlando de La Rete al Sud. Nel frattempo, Mani Pulite andava avanti. Borrelli affiancò a Di Pietro Gherardo Colombo – cattolico di sinistra, di famiglia borghese, che aveva scoperto con Giuliano Turone gli elenchi della P2 a Castiglion Fibocchi – e Piercamillo Davigo – raffinato giurista con fama di incorruttibile magistrato, ammirato anche dai missini meneghini quali Riccardo De Corato e Ignazio La Russa. Buccini ricorda che si creò anche un pool di giornalisti, oltre che a quello dei magistrati. «Ci diamo regole semplici. Nessuna notizia sarà occultata ma ciascuna verrà verificata almeno due volte, non avendo l’assillo che un giornale concorrente la pubblichi anzitempo».

Un consorzio che inevitabilmente fece il gioco della piazza in visibilio per l’opera di investigazione dei magistrati. «Di Pietro facci sognare», si diceva sotto il Palazzo di Giustizia. Basilio Rizzo, Nando Dalla Chiesa, Sabina Guzzanti, Gianfranco Fini, appartenenti a sensibilità politiche diverse, espressero coralmente il sostegno nei confronti del magistrato molisano. Alle questioni di corruzione e politica si intrecciarono poi quelle di mafia. Il 23 maggio 1992 ci fu la Strage di Capaci: allora un parlamento ingessato stava cercando di eleggere il successore di Francesco Cossiga al Quirinale. Marco Pannella propose di uscire dall’impasse con Oscar Luigi Scalfaro. Di lì a poco a Palazzo Chigi arrivò Giuliano Amato, braccio destro di Craxi. Si fece strada, nel frattempo, la cosiddetta “dottrina Davigo”. Ovvero, l’arresto e la confessione come elementi necessari per spezzare il vincolo tra tangentisti, politici e imprenditori, scrive Buccini.

Un avviso di garanzia, enfatizzato in maniera sensazionalistica dai giornalisti, suonava come una sentenza preventiva. Ne arrivò una anche al socialista Sergio Moroni e diverse al segretario amministrativo della DC, Severino Citaristi. Scapparono invece Manzi e l’architetto Silvano Larini, vicino a Craxi. «In passato la maggioranza dell’opinione pubblica era assai ostile agli uomini in toga», scrisse Giulio Anselmi, al tempo vicedirettore del Corriere. «L’opinione pubblica ha individuato in Di Pietro e nei suoi colleghi che conducono le inchieste sulle tangenti i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza». Oltre al metodo di far cantare gli imputati al banco finirono anche il concetto di obbligatorietà dell’azione penale e la separazione delle carriere. Elementi che avrebbero fatto polemica negli anni a venire. Nell’inchiesta di Mani Pulite entrarono anche il socialista Gianni De Michelis, ex titolare della Farnesina e Salvatore Ligresti, il Re del mattone.

Su Di Pietro s’iniziarono a fare illazioni in merito ad un presunto torbido passato. Rino Formica disse che Craxi arriva in mano un poker d’assi contro il pm. Che frequentava il socialista Sergio Radaelli e il dc Maurizio Prada, poi arrestati. Il pool finì sotto attacco per il suicidio di Moroni. Il deputato bresciano aveva lasciato al Presidente della Camera Giorgio Napolitano una lettera in cui denunciava il pesante clima mediatico-giudiziario. «Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C’è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste regole». Quello di Moroni non è stato l’unico suicidio durante Mani Pulite.

Il 23 maggio si uccise col gas di scarico dell’auto il funzionario della USL Franco Franchi. Il 18 giugno con un colpo di pistola, l’ex segretario socialista di Lodi Renato Amorese. Destino analogo il 27 luglio per Mario Majocchi, dell’associazione costruttori. Craxi reagì: se la prese con il pool, colpevole di aver «creato un clima infame». Rispose Gerardo D’Ambrosio, vice di Borrelli: «Il clima infame l’hanno creato loro! Noi ci siamo limitati a perseguire fatti previsti dalla legge come reati. Poi c’è ancora qualcuno che si vergogna e si suicida». Fece eco Davigo: «Le conseguenze dei delitti devono ricadere su chi li ha commessi, non su chi li ha scoperti». Continua Buccini: «In autunno la cronaca giudiziaria passa un po’ in secondo piano dopo sei mesi abbondanti di fuochi d’artificio. L’inchiesta cala, dalle prime pagine torna nelle cronache locali». Alla DC arrivò Mino Martinazzoli; al Corriere Paolo Mieli.

Il 15 dicembre l’ANSA uscì con la notizia attesa da mesi: Craxi raggiunto da un avviso di garanzia. In seguito, si dimise dalla segreteria del PSI dopo quasi diciassette anni. Destino analogo per Claudio Martelli, suo vice e delfino. Craxi rappresentava l’autonomia socialista e la necessità di farsi strada tra DC e PCI, le cosiddette due chiese, negli anni Ottanta. Accusò i magistrati e gli avversari politici di volerlo eliminare dalla scena politica, ribadendo al contempo che tutti erano coinvolti nel sistema delle tangenti. Dopo gli errori del caso di Enzo Tortora, quando si decise di limitare l’uso degli schiavettoni, nel 1993 le manette medievali comparvero attorno ai polsi di Enzo Carra, portavoce di Arnaldo Forlani. «Anche la Gestapo otteneva risultati in questo modo», disse. Nel frattempo, si costituì anche Larini, dopo un anno di latitanza tra viaggi barca a vela e spiagge esotiche.

È attraverso di lui che i finanziamenti illeciti arrivavano in Piazza Duomo, studio del segretario socialista. Larini svelò anche l’esistenza di un conto segreto presso l’UBS di Lugano, numero 633369. Il “Conto Protezione”, su cui anni prima Colombo e Turone erano già incappati perquisendo il covo di Licio Gelli. Mani Pulite stava dissanguando la classe politica nazionale. Il ministro della Giustizia Giovanni Conso cercò di abbozzare un pacchetto di misure che depenalizzasse il reato di finanziamento illecito: il “colpo di spugna”. «La classe politica responsabile di un sistema di tangenti ha deciso di assolvere sé stessa», disse D’Ambrosio in risposta alla misura, che poi cadde. Da Palermo arrivò il primo avviso di garanzia a Giulio Andreotti per rapporti con la mafia. Anche il segretario del Partito Liberale Renato Altissimo si dimise. Luca Leoni Orsenigo della Lega diede spettacolo alla Camera sventolando un cappio in faccia i colleghi.

L’immagine degna di una rivoluzione di sangue. Il 29 aprile dopo l’ennesimo arrivo di avvisi di garanzia in uscita dal suo alloggio romano al Raphaël di Roma, a Craxi vennero lanciate delle monetine. Il motivo della rabbia popolare era l’assoluzione parlamentare del segretario psi, che costò anche la dimissione dei ministri pidiessini Augusto Barbera, Vincenzo Visco e Luigi Berlinguer e del verde Francesco Rutelli dal neonato governo di Carlo Azeglio Ciampi. Quella sera, a Roma con Craxi, c’era anche l’amico e imprenditore Silvio Berlusconi. Con il fedele Marcello Dell’Utri, il Cavaliere stava intavolando il progetto di creare una nuova creatura politica di fronte alla desertificazione dei partiti tradizionali. Sebbene sembrassero indagati soltanto i partiti moderati dell’arco costituzionale, nel 1993 arrivò anche il turno del PDS. Primo Greganti, era una figura centrale dei meccanismi di finanziamento del partito, ribattezzato “Compagno G”, venne arrestato.

Tuttavia, non parlò e le indagini sui finanziamenti all’ex PCI rimasero su un binario morto. Buccini ricorda come l’estate del 1993 sia stata terrorizzante. Bombe a Milano, Firenze e Roma terrorizzano un paese in ginocchio. Un blackout a Palazzo Chigi fece temere un colpo di Stato in stile sudamericano. Poco prima si tolsero la vita Gabriele Cagliari, già presidente dell’ENI e Raul Gardini, già capo della Ferruzzi. Emerse dunque la “madre di tutte le tangenti”, la mazzetta Enimont. Si aprì così il processo nell’autunno 1993 attorno a Sergio Cusani. «Napoletano, salito a Milano per fare la Bocconi, entrato quasi subito nei giri della finanza che conta, ha mollato la laurea per scalare più in fretta la città rampante del craxismo». Il passaggio all’uninominale scandito dal Mattarellum prevedeva la fine ufficiale del sistema dei partiti.

Nell’ambito del processo sfilarono in tribunale Craxi, Forlani, Martelli, Altissimo, Citaristi, Bossi, Giorgio La Malfa e Paolo Cirino Pomicino. Il processo iniziò il 28 ottobre 1993. Il tribunale era presieduto da Giuseppe Tarantola, intransigente nei confronti della giustizia-spettacolo. Il processo Cusani venne filmato in diretta e si snodò in puntate come una serie tv. La classe politica venne esposta al pubblico ludibrio. In fase di dibattimento Di Pietro si lasciò andare ad intercalari dialettali quali i mitici “pane al pane”, “e vivaddio”, “che c’azzecca?”. A difendere Cusani, il grande antagonista di Tonino, l’avvocato Giuliano Spazzali. «Coltissimo comunista non pentito, già avversario di ceppi e celle dai tempi del processo “7 Aprile” contro Toni Negri e l’Autonomia operaia, già legale militante di Soccorso Rosso». Ad eccezione di Craxi, che non perse l’aria di sfida durante l’udienza del processo Enimont, i big della politica naufragarono.

«La posizione di Craxi è la solita: tutti sapevano, ma si trattava e si tratta solo di finanziamento illegale, la politica ha un costo e chi finge di non saperlo è un sepolcro imbiancato». Sul calare del 1993, persisteva la sensazione che il PDS l’avesse fatta franca. Non è così, almeno per la corrente migliorista. Spiega Buccini: «Il PCI ha attinto a fonti di finanziamento estere almeno fino a metà anni Settanta. A differenza degli imprenditori “laici”, i cooperatori […] non hanno parlato al primo tintinnar di manette […] perché motivati […] ideologicamente: e questo ha impedito a Di Pietro […] di risalire troppo la corrente». Il Cavaliere scese in campo nel gennaio 1994. Fece appello ai moderati affinché si unissero contro la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto. Creò una coalizione al Nord con la Lega e una al Sud con il Movimento Sociale di Fini.

I nove minuti di videomessaggio che iniziarono con il celebre «L’Italia è il paese che amo» andò in onda il 26 gennaio 1994 e cambiò la politica italiana nei trent’anni a venire. Il movimento politico del Cavaliere, Forza Italia, vinse le elezioni. Inaspettatamente, il primo partito, con il 21% dei consensi; la Lega poco sotto al 9 e Fini a quasi il 14%. Il Polo delle Libertà a Nord e quello del Buongoverno a Sud hanno dato i frutti sperati per il Cavaliere. La maggioranza risicata al Senato consente al centrodestra di eleggere presidente a Palazzo Madama Carlo Scognamiglio. Nei primi mesi di governo Bossi fece il diavolo a quattro e non andava d’accordo con gli alleati. Giuseppe Tatarella del MSI suggerì al Cavaliere che Di Pietro sarebbe stato un ottimo ministro degli Interni, ma dietro pressioni di Borrelli, il PM declinò l’offerta.

Con l’arrivo dell’oramai Seconda Repubblica comparvero anche personaggi controversi. Tra cui Cesare Previti, «entrato delle grazie di Berlusconi per avergli fatto acquistare a prezzo stracciato villa San Martino ad Arcore dall’indifesa marchesina Casati Stampa», dirottato da Guardasigilli a ministro della Difesa. Il ministero della Giustizia passò dunque ad Alfredo Biondi. Il vecchio avvocato liberale mise le mani avanti. I giudici di Milano potevano stare tranquilli; «sarò uno dei loro, una sentinella molto attenta in modo che non debbano mai immaginare che ci sia un’interferenza dell’esecutivo o di chiunque nella libertà delle loro decisioni». Nel frattempo, Craxi decise di espatriare in Tunisia: ad Hammamet era al riparo dalle indagini giudiziarie. A De Michelis e Martelli erano già stati ritirati i passaporti. L’apice della tensione tra magistratura e politica arrivò il 13 luglio.

Mentre gli italiani guardavano la semifinale dei mondiali contro la Bulgaria, il Consiglio dei ministri passava un decreto-legge che riduceva l’uso della custodia cautelare in carcere per i reati dei colletti bianchi (finanziamento illecito, falso in bilancio, bancarotta fraudolenta corruzione e concussione). A pronunciarsi contro il decreto e l’intero pool di Mani Pulite. Per voce di Di Pietro, in tv il pool spiegò che il nuovo decreto ribattezzato “Salvaladri” «non consente più di investigare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato». Buccini ricorda qualcosa che nel marasma dell’epoca venne dimenticato. La dichiarazione dei pm «conterrebbe in effetti una clamorosa confessione a sua volta: la conferma che […] l’indagine si è avvalsa e nutrita dell’uso misurato delle manette, senza le quali pare non si riesca a combattere i ladri nel nostro Paese». In seguito, il decreto venne ritirato, ma Berlusconi venne raggiunto dall’avviso di garanzia.

In dicembre, Di Pietro si vide costretto a dimettersi. Bossi ritirò il proprio sostegno a Berlusconi in dicembre. Al governo andò il tecnico Lamberto Dini. Buccini prova a riassumere le occasioni perdute della stagione di Mani Pulite. «La Seconda Repubblica, quella di Berlusconi e di una rivoluzione liberale ridotta a mera rivolta contro le regole a colpi di leggi ad personam, s’è schiantata nel ridicolo […]: la Terza è per ora una mediocre finzione, come finto è anche il passaggio tra l’una e l’altra, che in Paesi seri viene scandito da novità costituzionali». Sarebbe opportuno «smettere di chiedere ai magistrati di supplire alle nostre carenze, invocandone l’intervento salvifico dove non siamo capaci di riformarci come corpo sociale e politico, per poi dolerci delle loro invasioni di campo». Gherardo Colombo (Lettera a un figlio su Mani Pulite) ha rivisto questo aspetto in maniera critica.

«All’inizio delle indagini, le prove coinvolgono persone molto in alto, con cui quasi nessuno si può identificare: il sindaco […], un ministro, un parlamentare. E allora sono tutti concordi nello stigmatizzare comportamenti e individui […]. La gente abbraccia la nostra indagine, quasi mitizzandoci come salvatori della patria. Questo entusiasmo della società civile aiuta ad acquisire le prove […], anche perché chi ha commesso quel tipo di reati sente l’ostilità dell’opinione pubblica ed è portato a collaborare. Via via che l’inchiesta prosegue, però, le prove ci portano a scoprire la corruzione di persone comuni, con le quali non è difficile identificarsi […]. A questo punto una fetta consistente di cittadini comincia a preoccuparsi e a chiedersi: “Ma questi giudici […] vogliono venire a vedere quello che faccio io? Se lo tolgano dalla testa”». Una verità scomoda, che pochi accettano oggi, anche perché questo vorrebbe dire assumersi le proprie responsabilità.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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