Editoriale

Questa non è l’Italia di Alan Friedman

L’ascesa dei partiti demagogici e populisti, l’immigrazione di migliaia di individui (rifugiati e migranti economici – ridotti di oltre tre quarti già nel 2017), le emigrazioni di giovani talenti, le fragilità dell’Unione Europea e le polemiche attorno all’Euro, la crisi bancaria (i crediti inesigibili sono ancora il dieci per cento degli attivi) e quella del debito, minano il sistema-Italia. Eccessiva pressione fiscale, burocrazia imperante, lentezza ed inefficienza della giustizia, rigidità del mercato del lavoro, corruzione ed evasione avvelenano i presupposti di crescita del Belpaese. «Siamo alle solite», diranno alcuni, ma secondo Alan Friedman – autore di Questa non è l’Italia (Newton Compton, 2019) – quella di oggi «non è più l’Italia patria della cultura e della tolleranza». Oggi «sono saltati i freni inibitori», aprendo così un’autostrada lastricata di istinti rabbiosi e paure ataviche in un paese che «ha sempre mostrato certa inclinazione per gli uomini forti».

L’Italia è un paese malato, stanco, vittima dei suoi stessi paradossi. Certo, negli ultimi anni «l’unico volano è stato l’export», ma i consumi interni sono stati bassi, così come la produttività del lavoro (questa, cresciuta dal 1995 al 2017 dello 0.4 annuo, rispetto all’1.5 della Germania). Altri crucci di un paese febbrile sono la pressione fiscale – quarantadue per cento (nel Regno Unito è al trentatré) –, così come l’enorme fetta di welfare dedicata alle pensioni: come cresce un paese che investe (solo o quasi) negli anziani? Conclamato che le due misure di bandiera del precedente esecutivo – Quota 100 e Reddito di Cittadinanza – non hanno incrementato (come previsto da tutti o quasi) il livello occupazionale, il Belpaese si avvia, strisciando, verso proiezioni di crescita economica pari allo 0.1 per cento nel 2020.

Questo, ultimo miserissimo dato di una lunga serie. Secondo Friedman nell’ultimo scarso decennio in Italia c’è stata una sorta di trasformazione antropologica, per così dire: un paese incattivito, a tratti feroce. Solo colpa della crisi economica? «Il Belpaese ha scelto di ascoltare il canto delle sirene, di seguire i venditori di fumo, i profeti che giurano di rendere l’Italia di nuovo “bellissima”.» E l’abbiamo visto venerdì 31 maggio 2019, quando per la prima volta la Grecia pagava interessi sul debito più bassi dell’Italia (a cui, d’altra parte, costava di più finanziare il suo sui mercati internazionali). Altro che “anno bellissimo” (copyright Giuseppe Conte). Oggi l’Italia spende di più in interessi sul debito che in istruzione (la performance peggiore in termini di investimenti in educazione, scuola e ricerca: peggio di Bucarest e Dublino).

Il Quantitative Easing (accettato in maniera a dir poco riluttante dall’ambiente finanziario tedesco) non solo ha mantenuto i tassi d’interesse bassi nella zona Euro, ma è stata una grande occasione sprecata. Sprecata, è il caso di dirlo, tra le sterili polemiche aizzate contro Bruxelles – non priva di colpe politiche, intendiamoci – e il mitico spread (che se fosse zero in relazione alla Germania farebbe risparmiare al Belpaese in media trenta miliardi di Euro, secondo l’Osservatorio CPI). «Noi non siamo in guerra con l’ISIS e la Russia, siamo in guerra contro la BCE», tuonò Beppe Grillo nel novembre 2014; dimenticando che al vertice dell’istituto di Francoforte c’era qualcuno che di certo ha tentato di aiutare l’Italia: Mario Draghi («il policy maker più potente di tutto il continente […], custode dell’Euro, odiato dai populisti, rispettato e temuto»).

Quando i cosiddetti populisti – che «promettono soluzioni facili e miracolose», annota Friedman – arrivano al governo non possono che scontrarsi contro il principio della realtà dei conti pubblici. Essi dunque optano per mossa più facile per chi ha le leve dell’Esecutivo. Debito (cresciuto negli anni Ottanta, equivalente oggi a circa trentottomila Euro pro-capite, neonati inclusi) e deficit che danneggiano i conti pubblici. E ai demagoghi, quasi sempre convinti statalisti, piace aumentarli. Loro, che «in tempi normali, restano ai margini della società, ne rappresentano solamente una piccola parte. Ma in presenza di gravi crisi o traumi collettivi […] possono trasformarsi in movimenti politici di massa». In Italia come in Europa, i grandi sovvertitori demagogici hanno preso di mira i settori economici più poveri della società, aizzandoli contro il cosiddetto establishment, contro le élite; e d’altra parte, «la paura dello straniero è stata marchiata a fuoco nel cervello dei fan degli estremisti.»

A proposito di Matteo Salvini, la star della politica italiana – neppure troppo “nascente”, visto che il personaggio fa politica da quando portava i calzoni alla zuava e il tamarrissimo orecchino –, Friedman spiega che «gioca a fare il macho con immenso piacere. I suoi fan se la bevono. Adorano l’intransigenza del loro Capitano» (titolo che si è auto-conferito), che riesce «a manipolare la questione dell’immigrazione», nonostante – durante la permanenza (formale, più che fisica) al Ministero degli Interni – non abbia partecipato che una volta (su sette) alle riunioni del Consiglio “Giustizia e affari interni” dell’UE. «Me ne frego», è stato per mesi il suo motto, prima della calura agostana – e il delirio di onnipotenza – all’autorevolissima adunata-show(down) del Papete. Secondo Friedman «Salvini vorrebbe fare il re dei sovranisti europei, ma […] quelli che dovrebbero essere i suoi alleati e i suoi cortigiani non hanno alcuna intenzione di riconoscerlo come leader» e, soprattutto, non vogliono saperne di pagare i debiti italici che aumenterebbero sotto il segno di manovre populiste. Nei confronti del leghista, «Marine Le Pen si dimostra amichevole, ma è improbabile che sia disposta a combattere per […] maggiore flessibilità sui conti pubblici italiani.»

Sconfitti – per ora e apparentemente – alle elezioni europee dello scorso maggio, i partiti demagogici-antisistema – che, dopotutto, dispongono di pochissimi seggi nell’Europarlamento e quindi non ne influenzano la politica attiva – preoccupano gli osservatori e gli investitori internazionali. Questi, spaventati certamente dalle posizioni italiane in termini di politica estera: lontane dai suoi partner storici, non più filo-atlantiste. A livello internazionale, sembra che le alleanze geopolitiche dell’Italia abbiano subito importanti alterazioni. Una tattica sciocca e scellerata, pericolosa e masochista quella di «allontanare l’Italia dalle istituzioni e organizzazioni multilaterali strategiche»; un qualcosa che non solo isola il Belpaese, ma lo espone alle vendette commerciali dell’aquila americana e allo spolpamento industriale del Dragone cinese. Risultato? L’Italia non conta niente (o meglio: ha scelto di non contare niente) nei summit internazionali.

Secondo Friedman, a solleticare gli istinti dei leader populisti europei – con preferenza evidente per quelli italiani – sarebbe Steve Bannon, «Darth Vader della politica americana», ideatore della guerra commerciale statunitense nei confronti di Pechino e dello stralcio di Washington dell’accordo sul nucleare iraniano e gli accordi di Parigi. Ex dirigente di Goldman Sachs, l’ex direttore di “Breitbartnews” – sito di notizie e opinioni di estrema destra americana – fa il pauperista e attacca le élite globali: è la musa ispiratrice dei piccoli “The Donald” europei, in sintonia sempre maggiore con gli autocrati dell’Est, del Medioriente, dell’America Latina.

E proprio di alcuni Paesi del Sud America l’Italia rischia il destino. La ricetta per evitare di danzare sul baratro? In parte, è la stessa da almeno tre decenni. Friedman la riassume in un lungo elenco che – visto il passato – sarà utile ancora per i prossimi anni: stimolare la crescita, incentivare le assunzioni, promuovere i premi salariali, aumentare gli sgravi fiscali sulla digital economy, abrogare Quota 100 e Reddito di Cittadinanza, investire in istruzione, riformare la PA, riformare la giustizia civile, lanciare un piano di privatizzazioni. L’Italia ha perduto un quarto di secolo. È proprio dai primi anni Novanta che l’economia non cresce in maniera soddisfacente e la grande recessione – da cui il Belpaese non si è ancora ripreso, se non negli agglomerati del Nord – ha solo peggiorato le cose. E «solo l’Italia può salvare l’Italia.» Quell’Italia che non è più, secondo Friedman, l’Italia di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, o di Giulio Andreotti e Bettino Craxi e neppure – e chi mai l’avrebbe rimpianta – quella di Silvio Berlusconi e Romano Prodi. È un’altra cosa.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

 

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