Anniversari

Trent’anni dopo la Strage di Capaci

I magistrati italiani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, 27 marzo 1992.

Trent’anni ci separano dalla Strage di Capaci e dalla Strage di via d’Amelio, gli attentati di stampo terroristico-mafioso in cui persero la vita Giovanni Falcone – con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro – e Paolo Borsellino, con i cinque agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. 23 maggio 1992 e 19 luglio 1992, due date scolpite dolorosamente nella mente di tutti gli italiani e non solo. Dopo ben tre decenni dagli attentati contro i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, avvenuti in un contesto di complicità che va ben oltre il livello della mafia, restano ancora tanti buchi neri. La verità, sui due eccidi, è ancora lontana e oggetto di processi e nuove indagini.

 

Il verdetto ribaltato

La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell’Utri, a giudizio di molti aveva dato linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi. Tre poliziotti sono a processo con l’accusa di essere i tasselli di una complessa strategia di depistaggio delle indagini sull’eccidio di via D’Amelio. Il 23 settembre 2021 il verdetto venne ribaltato. La Corte d’assise d’appello di Palermo assolve il senatore Marcello Dell’Utri «per non avere commesso il fatto» e gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno «perché il fatto non costituisce reato». Pena leggermente ridotta a 27 anni al boss Leoluca Bagarella; confermati i 12 anni al medico mafioso Antonino Cinà, fedelissimo di Bernardo Provenzano. Ergastolo per i boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, sì alle condanne dei falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci (10 anni di reclusione) e Francesco Andriotta (10 anni -4 mesi, lo sconto di pena concesso) per calunnia.

Nel luglio 2020 si è chiuso il Falcone bis: condannati i boss Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Lorenzo Tinnirello. Vittorio Tutino assolto come in primo grado. Il 14 giugno tocca alla Cassazione. Per l’accusa, il boss palermitano di Cosa nostra Salvo Madonia è stato uno dei mandanti della strage, mentre gli altri sarebbero stati coinvolti nella fase esecutiva dell’attentato. Nel corso del processo, alcuni collaboratori di giustizia hanno detto che «oltre a dovere uccidere il giudice Giovanni Falcone, si dovevano eliminare Maurizio Costanzo, Michele Santoro e Pippo Baudo per allontanare l’attenzione dalla Sicilia e creare un certo allarme nel centro Italia».

 

Le «zone d’ombra»

I giudici di merito – scriveva la Cassazione nella sentenza depositata a novembre 2021 – non mancano di confrontarsi con le persistenti «zone d’ombra» sulla vicenda della strage di via D’Amelio, rimarcando comunque la paternità mafiosa dell’attentato. A proposito di tali “zone d’ombra”, la sentenza impugnata richiama la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, le dichiarazioni di testi intervenuti nell’immediatezza della deflagrazione, dichiarazioni rivelatrici di contraddizioni che gli accertamenti svolti non hanno consentito di superare, nonché l’anomalia del coinvolgimento del Sisde nelle indagini e i condizionamenti esterni e interni sull’inchiesta. I dati probatori relativi alle richiamate “zone d’ombra”, ricorda la Suprema Corte, «possono al più condurre a ipotizzare la presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co-)interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino», ma ciò «non esclude il riconoscimento della “paternità mafiosa” dell’attentato di via D’Amelio e della sua riconducibilità alla “strategia stragista” deliberata da Cosa Nostra, prima di tutto, come “risposta” all’esito del maxiprocesso».

 

«Un colossale e inaudito depistaggio»

È alle battute finali il processo di primo grado sul presunto depistaggio delle indagini successive alla strage di via d’Amelio. L’11 maggio scorso, al termine della sua requisitoria, il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca ha chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi di reclusione per Mario Bo e a 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i tre poliziotti, ex componenti del Gruppo Falcone Borsellino, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. «Questo gigantesco, inaudito depistaggio – ha detto De Luca – ha voluto coprire delle alleanze strategiche di altro livello di Cosa nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza. Tutti sapevano che Scarantino era un personaggio delinquenziale di serie C». È finita archiviata, invece, da tempo, a Messina, l’indagine a carico di alcuni magistrati sulla presunta manipolazione di Scarantino.

 

Matteo Messina Denaro: l’ultimo padrino

Strage di Capaci - Una delle due stele situate ai lati dell'autostrada nei pressi di Capaci

Una delle due stele situate ai lati dell’autostrada nel punto in cui avvenne la strage di Capaci. (Foto: C. Pescia)

È fissata per il 22 giugno, con la riapertura dell’istruttoria dibattimentale, l’udienza del processo in Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta nei confronti di Matteo Messina Denaro accusato di essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il superlatitante nell’ottobre del 2020 in primo grado venne condannato all’ergastolo. Capo della mafia trapanese, ricercato dal 1993, è ritenuto uno dei responsabili della linea stragista di Cosa nostra imposta dai corleonesi di Totò Riina con il quale, avrebbe pianificato negli anni ’90 l’attacco alle istituzioni.

 

Gli omaggi a Palermo

«La lotta alla mafia si regge sulle spalle di un gigante che si chiamava Giovanni Falcone. Ma io non amo chiamarlo eroe: era un magistrato, un uomo che faceva il suo lavoro», ha affermato la sorella del magistrato Maria Falcone, intervenuta al Foro Italico per il trentennale della Strage di Capaci. In occasione della commemorazione, Maria Falcone ha inoltre sottolineato che attende la cattura di Messina Denaro, e ha espresso un messaggio di speranza. «Le frasi della gente comune sul senso della libertà ritrovata mi fanno capire che quella città in ginocchio e piangente del 23 maggio 1992 ha rialzato la testa. L’Italia ha rialzato la testa. Forse nei momenti più bui nella storia di ogni Paese la società viene presa da una voglia di riscossa. Da determinati fatti nasce la rivoluzione di un Paese», e ha aggiunto: «Io in questi anni ho cercato di portare avanti l’idea di Giovanni: la mafia non si vince soltanto con la repressione, che dev’essere sempre forte e degna di uno Stato di diritto, ma sul piano culturale. Se oggi abbiamo questa città piena di ragazzi che ricordano, e non erano nemmeno nati nel ’92, Giovanni come se fosse un loro contemporaneo e apprezzano e pensano ai suoi valori io penso che in parte abbiamo vinto. Il percorso è ancora lungo ma noi siamo qui».

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