Editoriale

Un mondo di populismo autoritario e illiberale

Il populismo si richiama al popolo, quasi come questo sia il collante di ogni discorso politico (o parapolitico): i leader che adoperano l’armamentario verbale della demagogia usano il termine a più non posso per sottolineare il legame e la connessione tra loro e il popolo stesso. Il concetto di popolo è stato molto strumentalizzato da diversi politici negli ultimi anni a tutte le latitudini: esso conserva in sé quasi il ricordo di un “ritorno al passato”, di uno “stare insieme” antico; consente quindi di superare ogni divisione, ogni conflitto, ottenendo così una presunta armonia sociale se riunito sotto il grande capo. Il populismo sfrutta il popolo, celebrandolo; e il popolo stesso – indiscriminato e al contempo cieco – è il Dio osannato dal demagogo, che parallelamente si sente egli stesso divinità in quanto lodato dalla folla e destinatario dei di lei favori elettorali. Il populismo è innanzitutto un sintomo di inadeguatezza profonda dei gruppi dirigenti tradizionali: già in Economia e società del 1921 Max Weber ha spiegato che una leader carismatico si presenta sempre in tempi di grave crisi sociale combinata a un forte stato di ansia collettiva.

Il leader politico demagogico – pauperista, distributore di esigenze, sollecitatore del ventre popolare – è chiamato a sopperire alle mancanze della classe politica precedente, indebolita dai propri errori, dalle proprie mancanze e dalle proprie miopie. Il leader si appella quindi all’antipolitica che, come ha scritto Yves Surel, è «uno strumento al servizio di un progetto politico che mira a cambiare lo status quo.» Ebbene, nei comportamenti, nei modi, nel linguaggio, sono molti i leader odierni che vogliono consapevolmente dare di sé non solo una parvenza, ma una dimensione autoritaria. Questa, stadio avanzato del populismo e dunque sua tappa obbligatoria per ogni leader che voglia entrare – non sempre elettoralmente – nella stanza dei bottoni.

Le correnti demagogiche – che etichettiamo spesso come “populismo” – compaiono in periodi di incertezza, dove la confusione politica è endemica: crisi culturali, economiche, sociali (e oggi, anche sanitarie). Il populismo offre spiegazioni appositamente rozze, semplici, dunque efficaci anche perché l’invenzione dell’ideatore della miseria (detto altrimenti, il capro espiatorio) è una delle sue caratteristiche più salienti. Non serve a molto quella che Leo Strauss chiamava reductio ad hitlerium, ovvero la condanna forsennata – e altrettanto demagogica e sommaria – dei movimenti populisti, nonché l’accostamento di essi alle efferatezze del dittatore di turno del passato. Una mossa sterile e controproducente, anche perché, come ha scritto Antonio Polito (Corriere della Sera, 26 settembre 2019), sono «la debolezza dei parlamenti, lo scarso consenso di cui godono i partiti che tradizionalmente li animano, la difficoltà di mantenere la promessa della prosperità, ad aver evocato dalle viscere della società del Terzo Millennio gli spiriti dell’autocrazia».

Sono i leader autoritari nel mondo d’oggi: tutti ai vertici dei governi dei più importanti del pianeta. Guardiamoci attorno: Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan, Jair Bolsonaro, Rodrigo Duterte, Nicolás Maduro, per non parlare dei vertici di regimi come Tagikistan, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Vietnam e, assodato recentemente e quasi ufficialmente, anche Ungheria. Essi non fanno mistero di considerare la democrazia come un qualcosa di accessorio; e dunque superato. Quasi tutti i leader demagogico-autoritari sono accomunati, tra le altre cose, dal “my country first”, il disprezzo e l’indifferenza per i diritti umani e l’autoritarismo erto a sistema e metodo di governo. Il nazionalismo – che è una delle anticamere del sistema totalitario – mira alla divinizzazione dello Stato, nonché alla creazione di un nuovo tipo di identità. Un nuovo uomo.

Un uomo che non si riconosce più nel secolare liberalismo (“obsoleto”, come ha detto il capo del Cremlino in una nota intervista rilasciata poco tempo fa al Financial Times) e dunque nella democrazia liberale. Pertanto, i leader demagogico-autoritari propongono – e impongono – un nuovo tipo di democrazia: quella illiberale. «Democrazia illiberale […] non significa nulla poiché una democrazia con diritti civili sotto sorveglianza dell’esecutivo e senza una pubblica e libera competizione politica non può esistere» avverte Nadia Urbinati (Corriere della Sera, 8 luglio 2019) che identifica in «ideologia del popolo», manipolazione dei media, capitalismo e oligarchia, corruzione e clientelismo le cifre massime per la costruzione del consenso attorno ai alle potenze antidemocratiche o con tali istinti.

I leader che solleticano gli istinti autoritari e ne fanno ampio uso sono molto bravi nel capire la protesta: anche la protesta social. Devono quindi assoldare immediatamente chiunque sia in grado di canalizzarla e, nel limite, influenzare al momento delle elezioni migliaia di utenti delle reti sociali secondo i messaggi che interessano loro. Gli autocrati di oggi sono eccezionali a capire il potenziale della tecnologia al servizio della corroborazione del loro consenso prima (quando sono semplici candidati nel gioco democratico) e della repressione poi (quando conquistano il potere). Il loro linguaggio, il primo sintomo che dovrebbe far accendere i fanali d’emergenza del cittadino, assomiglia a quello che alcuni uomini forti del passato usavano nelle piazze: è solo con le “sparate” che si creano autentici eventi mediatici. Dunque, popolarità. «Il linguaggio becero, la maschera da cattivo, […] le iperboli sono una componente costante del linguaggio populista. Servono a “parlare come il popolo”, a “farsi capire dal popolo”», come ha scritto Sigmund Ginzberg in Sindrome 1933.

Il populista-autoritario ha bisogno di trasformare tutto in uno show: la spettacolarizzazione continua è imperativa per mantenere il contatto col popolo-folla; e non importa se lo spettacolo è macabro (con palesi violazioni delle libertà di base degli individui scomodi, giornalisti in galera e quant’altro). Il populista-autoritario si vanta di avere la licenza popolare: il consenso “del popolo” come chiave per incrementare il suo potere o continuare la sua scalata verso di esso. Il leader demagogico ha il suo fascino: la crisi economico-finanziaria, che in molte fragilissime democrazie sembra essere ferma al triennio 2011-2013, ha certamente spinto molti verso la ricerca del cosiddetto uomo forte. In tutto il mondo. Solo che le crisi economiche passano, ma quelle politiche che portano all’affermarsi della figura autoritaria, fintamente democratica e palesemente illiberale – con i suoi contenuti politici stereotipati, la tendenza a stigmatizzare l’oppositore e l’abuso del termine “popolo” – restano più a lungo.

Amedeo Gasparini

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