Politica

Vicini e distanti: il critico tra miti e tabù

Cos’è la destra, cos’è la sinistra? si chiedeva con malinconica ironia Giorgio Gaber nella sua impietosa radiografia della società italiana, dove le differenze tra i due orientamenti politici parevano così superficiali da ridursi a meri cliché. Ben prima dell’attuale mantra dal sapore qualunquista – “destra e sinistra sono categorie superate” –, di cui vanno ghiotti trasformisti e furbeschi promotori di terze vie, il Signor G. nel ‘94 denunciava l’omologazione imperante che rendeva quasi indistinguibili i due schieramenti. Il contrasto solo apparente e l’ossessione per una diversità ormai dispersa cantata in Destra-sinistra riecheggia il dubbio già intuito nel ventennio precedente. L’assenza di una reale spinta culturale, che Gaber ravvisa già nel ’75, produce «giovani viziati» che vagano per le strade vantando una «finta libertà» che cela un «grande vuoto», la mancanza di ideali (Il grido). Il cantautore registra la progressiva deriva delle generazioni “impegnate”, sottolineando lo iato tra chi si riuniva in «un’ondata che rifiuta e che resiste» e chi si limita ad odiare «per frustrazione e non per scelta». «Per riflesso involontario vi agitate, continuate ad urlare», saetta in Polli d’allevamento. Ed è proprio a partire da questa canzone che inizia l’involuzione di una nuova e cangiante specie: i pennuti «nutriti a colpi di musica e di rivoluzioni» si trasformano in un uomo «che si muove senza consistenza» (Il conformista) e mutano infine in un individuo osceno che fagocita tutto: dibattiti e canzoni, idee ed opinioni; «mangia slogan e ideologia, vecchie idee, nuovi miti», «s’ingurgita la pace, la guerra» e «s’ingravida mangiando gli orrori del mondo» (L’obeso).

Giorgio Gaber

Giorgio Gaber

Gaber fu l’ultimo erede di una razza ormai estinta, quella dell’intellettuale libero che rifiutando di farsi ingabbiare in logiche partitiche obbliga tutti, senza sconti, a fare i conti con le proprie gabbie ideologiche. Un invito alla complessità difficile da assimilare, tanto più se l’alternativa assai più rassicurante è quella di trincerarsi in valutazioni semplicistiche. A costo di sfiorare la realtà, rimanendo sempre in superficie. La via più battuta è quella dell’annullamento: “la cultura di destra non esiste”, si sente ripetere in questi giorni, colpa dell’“egemonia culturale della sinistra”, rispondono gli altri. Annoso dibattito che era già riemerso con la nuova edizione di Cultura di destra di Furio Jesi, – mitologo, germanista e critico militante –, apparso nel ‘79 e riedito da Nottetempo nel 2011. Con la stessa tendenza alla semplificazione, sia per ignoranza o malafede, gli uni lo definiscono «un trattato di criminologia culturale», gli altri fanno passare sottotraccia la premessa fondamentale del ragionamento, o si curano di omettere nelle loro analisi i passaggi più “dolorosi”. Nella maggior parte dei casi ci si limita a citare la definizione della cultura di destra offerta da Jesi in un’intervista a L’Espresso, contenuta nel libro: «[è] la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata» dove prevale «una religione della morte» e in cui si dichiara che esistono «valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione». En passant si ritrova un’ulteriore risposta dell’intervistato, quando gli si domanda se è possibile distinguere le “due” culture: «Ho qualche dubbio circa la possibilità di applicare oggi, in Italia, la distinzione fra destra e sinistra, non perché in astratto io la ritenga infondata ma perché non saprei bene quali esempi di sinistra citare». Raramente, se non mai, nei vari commenti, si riporta l’ultima precisazione di Jesi: «Tra il Risorgimento e il 1979 non sono certamente mancati in Italia esempi di grande destra», tra cui il Fortini che faceva emergere le contraddizioni sottese dalla provenienza altoborghese dei miti e degli esponenti della sinistra italiana.

Jesi in Cultura di destra decostruisce il sostrato ideologico delle «idee senza parole», ossia quel linguaggio tipico del fascismo e del nazismo che «presume di poter dire veramente, dunque dire e al tempo stesso celare nella sfera segreta del simbolo, facendo a meno delle parole» e ricorrendo invece a «parole d’ordine, stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti»; «ciò che conta è la circolazione chiusa del “segreto” – miti e riti – che il parlante ha in comune con gli ascoltatori». La premessa è che «la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale della destra». Non stupisce dunque – e qui veniamo alle dolenti note – che delle idee senza parole «è spesso anche il sinistrese, compreso quello più dinamitardo» che ricompare nei «discorsi celebrativi della Resistenza». Vale la pena notare che la religione della morte e la mistica del sacrificio oggi pare aver infettato senza distinzione i politici (v. L’Osservatore n. 14/22), e che i valori con l’iniziale maiuscola vengono contesi da destra a sinistra, con brusche virate: Prudenza e Saggezza (leggasi Obbedienza e Resilienza) nell’epidemia, Coraggio e Giustizia (leggasi Libertà e Resistenza) in guerra.

Per giungere infine a uno dei tanti ritornelli tornati alla riscossa, “gli intellettuali sono tutti di sinistra”, era già stato stroncato esattamente vent’anni fa da Giovanni Raboni, in un articolo scritto per il Corriere della Sera (ora in I grandi scrittori? Tutti di destra, De Piante Editore, 2022). Il critico qui sottolinea la non sussistenza di un nesso consolidato fra l’essere scrittore e l’essere “di sinistra” e spezza la falsa equazione tra ideologia e creazione, secondo la quale una persona di sinistra che scrive libri è ipso facto uno scrittore di sinistra e viceversa, e tra etica e talento. Lezioni inascoltate se si propongono ancora grotteschi processi morali, dimenticando che può coesistere «un forte consenso estetico» e «un radicale dissenso etico», come scrisse Raboni nel ’94, l’anno della “canzonetta” da cui siamo partiti. Tempi forse andati, quelli in cui gli intellettuali miravano non al plauso, ma a scuotere le coscienze, incrinando comode certezze, spezzando vecchi dogmatismi e nuovi conformismi. Rivendicando il diritto di critica, ricordando che «quando si supera il livello del dubbio e della ricerca e si va verso la certezza dell’antagonismo si blocca ogni processo evolutivo» (Gaber), senza dare per scontato che i “sodali” debbano ammirarsi l’un l’altro (Raboni), e riconoscendo che «ogni vero conflitto lo si ha con i vicini e non con i lontani» (Fortini).

Lucrezia Greppi

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