Commento

Irène Némirovsky stupisce ancora con la sua “autocorrispondenza”

Arriva in libreria, postuma, un’ultima opera di Irène Némirovsky che con Lettere di una vita (Adelphi 2023) conferma la prosa leggera che si legge nei suoi romanzi. Ha ragione Olivier Philipponnat nella prefazione. L’autrice «non apparteneva alla categoria degli scrittori che, nel dedicarsi alla corrispondenza, si sentono osservati dalla posterità. Non pensò mai che un giorno le sue lettere sarebbero giunte ad altri che ai loro destinatari, né che potessero essere incluse nella sua produzione letteraria». Anche per i suoi diari di lavoro – ancora poco esplorati e che delineano l’universo della “auto-corrispondenza” della scrittrice – si applica lo stesso principio. Le lettere costituiscono una parte integrale dell’opera. L’oggetto principale delle epistole riguarda proprio la produzione della scrittrice. Pubblicazioni, contratti, trattative. Irène Némirovsky dedicava grande attenzione alle condizioni di pubblicazione dei suoi libri, con premura quasi materna.

Tale preoccupazione dell’autrice – che dal 1926 al 1942 diede alla luce sedici romanzi e cinquanta racconti – fu costante. Pur mantenendo fitte corrispondenze con autori e editori, Némirovsky era una persona riservata. Nel libro vengono delineati i pilastri della vita dell’autrice. Nacque a Kyiv l’11 febbraio 1903. Crescendo nell’ignoranza della cultura ebraica, si abituò al francese. Buon rapporto con il padre, Leonid Némirovsky – uomo d’affari –, ma burrascosa la relazione con la madre. Con la rivoluzione del febbraio 1917, la famiglia fuggì da San Pietroburgo in Finlandia, dove scrisse i suoi primi versi e si immerse nella lettura degli autori francesi. Successivamente, si trasferì in Francia, «il paese più bello del mondo». A Parigi era libera di vivere come voleva. Andava nei locali, dove amava flirtare. «Seguo assiduamente le lezioni alla Sorbona, pensa un po’!», scrisse all’amica Madeleine Avot (1921).

A Parigi, che è «tutta frastuono e polvere» (1922), «abbiamo ballato, cantato canzoni russe, flirtato» (1924). Qui conobbe Michel Epstein, figlio di un banchiere russo in esilio, suo marito dal 1926. Da La nemica (1928) e Il ballo (1929) scaturirono feroci caricature della sua vita da ragazza. Ma il successo arrivò con David Golder (1929), la storia di un finanziere assillato dalla moglie, abbindolato dalla figlia e minacciato dalla morte. Il volume beneficò dell’eco della grande stampa francese. Poi Jezabel (1936), ritratto senza pietà della madre. Si rivolse al “maestro” Gaston Chérau, che le mandava i testi divisti e le «note così piene di saggezza» (1933). «Mi mette molto in imbarazzo che lei abbia dovuto trovare il tempo di fare questo lavoro proprio adesso che i candidati al Goncourt la impegnano tanto».

Con gli anni dell’ascesa del Nazismo – che Némirovsky definì una «follia reale e contagiosa» – il governo di Vichy promulgò le leggi razziali ed Epstein fu licenziato dalla banca. Costretta a pubblicare sotto pseudonimo, l’autrice fu arrestata il 13 luglio 1942 e mandata al campo di transito di Pithivier. Dunque, due giorni dopo, in Polonia. Continuava a scrivere lettere, ma non avrebbe mai terminato il celebre Suite francese. Obbligato dalle leggi razziali al confine di Issy-l’Évêque, Epstein fece di tutto per salvare la moglie. Il 17 luglio, Irène gli inviò un commovente biglietto di addio. Disperato, Michel affidò le figlie alle premurose cure di Julie Dumot e Madeleine Cabour. Il 9 ottobre, si fece arrestare volontariamente. Un mese dopo, fu deportato da Drancy ad Auschwitz, dove Irène Némirovsky era morta di tifo il 17 agosto 1942.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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