Commento

Libertà di nomina del vescovo di Lugano

Cattedrale di San Lorenzo a Lugano.

La raccolta di firme per chiedere a Consiglio federale e Santa Sede di rivedere la clausola che impone un “prete cittadino ticinese” come vescovo di Lugano, ha suscitato sorpresa e imbarazzo nel mondo della politica e in campo ecclesiastico. Sia i partiti, sia alcuni preti sono rimasti spiazzati di fronte ad una richiesta elementare: che sia il papa a scegliere chi vuole per la Chiesa ticinese e non sia una norma ottocentesca a limitarne la ricerca. Abbiamo visto in televisione ex presidenti nazionali di partito che non sapevano di cosa si stesse parlando, o letto commenti di prelati che non sapevano come affrontare la questione solo perché non se l’erano mai posta o la davano per scontata.

Politica e clero spiazzati, ma non la popolazione. La gente comune, fedeli che ancora frequentano le parrocchie, donne e uomini che responsabilmente e a titolo gratuito si mettono a disposizione per Consigli parrocchiali o pastorali, o che animano le attività delle associazioni e dei movimenti, hanno invece compreso benissimo quali siano le potenzialità di una revisione della convenzione tra Stati del 1888, rinnovata nel 1968.

Hanno capito che, indipendentemente dal luogo di origine, avere un vescovo attivo, propositivo, sempre disponibile e presente, è una ricchezza per tutti, ed è un fattore di partecipazione e di condivisione formidabile, capace di suscitare un rinnovato impegno nelle attività parrocchiali sul territorio. In questi ultimi anni, le questioni amministrative o burocratiche avevano ingessato e frenato l’attività delle parrocchie e delle associazioni, come se fossero più importanti dell’unico compito che invece la Chiesa deve svolgere: un annuncio di gioia e di salvezza. La paura e l’eccesso di prudenza dei vertici curiali avevano contagiato tutta la comunità ecclesiale e bloccato ogni spirito di iniziativa.

Firmare un appello che chiede libertà di nomina del vescovo di Lugano, è un atto di responsabilità e di partecipazione di tutti, cattolici e non cattolici, che chiedono di poter scardinare un metodo di scelta risalente a tempi di guerre di religione, di anticlericalismi irrazionali, di tentativi di controllo della libertà di scelta del papa di indicare la persona più adatta a guidare una diocesi.

Si parla tanto della responsabilità dei laici nella Chiesa. E fintanto che ci si limita a citare il Concilio, sono tutti contenti. Poi, quando questi stessi laici, le responsabilità se le assumono in prima persona, emerge lo spirito clericale (che non è solo dei preti…) e si adducono vaghe scuse: non tocca ai “privati cittadini”, non è questo il momento, non è questa la forma.

I cattolici che vivono la Chiesa in Ticino stanno invece dicendo (con la loro firma e l’adesione all’appello) che è proprio questo il momento, e che vi sono ragioni per credere che in futuro tutto sarà più difficile. Oggi è il momento giusto perché innanzitutto non c’è un vescovo di Lugano in carica, che sarebbe messo in seria difficoltà nel trattare una questione che riguarda direttamente lui e i suoi successori.

Poi, a Roma c’è un papa che, da abile gesuita quale è, non ha avuto timore ad inviare un vescovo romando come amministratore apostolico per gestire ad interim la diocesi. Non era mai accaduto in passato. Di norma, era infatti il vicario generale a gestire la sede vacante e ad essere nominato amministratore. La scelta del Santo Padre Francesco mostra invece che è possibile nominare – seppur temporaneamente – un vescovo che non è “ressortissant tessinois” e far rinascere nei fedeli un entusiasmo che si era affievolito.

Infine, altra straordinaria concomitanza, in Consiglio federale siede un ticinese, Ignazio Cassis, che conosce bene la situazione del Cantone e della Chiesa di Lugano, e può comprendere più di ogni altro l’anacronismo di questa clausola. Il fatto poi che ricopra la carica di ministro degli esteri, cioè di colui che deve trattare direttamente con la Santa Sede l’eventuale revisione della convenzione, lo fa essere di diritto la persona in assoluto più adatta per farlo.

Temporeggiare, evitare di parlarne sperando in tempi migliori, significa non affrontare più un problema che ormai tutti riconoscono come superato e fuori dal tempo.

Il sottoscritto, Maddalena Ermotti-Lepori e Giancarlo Seitz che insieme hanno lanciato l’appello hanno solo ascoltato ciò che la stragrande maggioranza dei fedeli dice da tempo. Non lo hanno fatto quindi da “privati cittadini” (come se fossero cittadini “privati” della loro dignità di fedeli laici) ma perché partecipano a pieno titolo alla vita della comunità cristiana alla quale appartengono.

Questo appello – e la raccolta di firme (i formulari possono ancora essere richiesti telefonando allo 079 620 9577) – non chiede che l’amministratore apostolico Alain De Raemy diventi seduta stante vescovo di Lugano. Non è questo l’intento. E bene ha fatto lo stesso De Raemy a non rispondere alle sollecitazioni della stampa. Se il vescovo Alain c’entra, è soltanto perché ha dimostrato, col suo modo di fare e con la sua volontà di conoscere a fondo la diocesi ticinese, che è possibile cercare anche fuori dalla ristrettissima cerchia di preti ticinesi doc un valido ordinario diocesano. Preti ticinesi che non sono, e non verranno mai, esclusi dalla possibilità di diventare guide della Chiesa ticinese. Ma con loro lo potranno essere anche i preti svizzeri attinenti di altri Cantoni o, ancora, i preti stranieri, magari nati e cresciuti in Ticino.

L’appello chiede soltanto che Berna e il Vaticano rivedano la convenzione per lasciare al papa libertà di nomina. Nomina che oggi è soggetta a questo accordo del 4 luglio 1968 tra Consiglio federale e Santa Sede, che contiene la controversa clausola risalente alla convenzione del 16 marzo 1888 (centrotrentacinque anni fa!) secondo la quale lo stesso vescovo di Lugano deve essere scelto tra “sacerdoti cittadini ticinesi” (“ressortissants tessinois”, appunto, nel testo originale in francese).

Questa clausola è ormai superata e figlia del suo tempo, e impedisce a preti della diocesi di Lugano non svizzeri, o a vescovi svizzeri di valore, di essere nominati Ordinari diocesani a tutti gli effetti. Non si pretende una rivoluzione, ma solo che la convenzione sia rivista (nelle forme e nei modi che le due diplomazie decideranno) e venga lasciata libertà di nomina. Anche perché la contestata clausola non è già in sé molto chiara. La traduzione italiana è vaga e soggettiva: dai proponenti è stata tradotta in “cittadini ticinesi”. In una versione di inizio Novecento (contenuta nella “Guida del clero” pubblicata dalla stessa diocesi di Lugano nel 1903) risulta essere “appartenenti al Cantone Ticino”. Dalla Nunziatura a Berna è da sempre invece considerata come “attinenza ticinese”. Insomma, c’è tanta di quella confusione sulla sua interpretazione che è ora di fare chiarezza.

Luigi Maffezzoli

In cima