Commento

Antonio Funiciello analizza sei leader e la loro eredità

In Leader per forza (Rizzoli 2023) Antonio Funiciello ripercorre storie di leader che attraversano i deserti e le loro biografie. Si tratta di Golda Meir, Harry Truman, Camillo Benso, Abraham Lincoln, Nelson Mandela e Václav Havel. L’autore si è chiaramente ispirato al libro Leadership di Henry Kissinger, pubblicato l’anno scorso in cui l’ex segretario di Stato statunitense compì un’operazione analoga su altri sei leader mondiali. Funiciello spiega che il bene più prezioso che un leader ha a disposizione è il suo tempo. Le doti del leader sono: possedere ideali che ispirino le persone; buona cultura generale; conoscenza dei problemi, adeguata competenza; supporto all’azione; abilità organizzative; coraggio, responsabilità e creatività. Un buon leader è chi è in grado di lasciare un segno. Egli deve rispecchiarsi nello spirito del tempo e delle prove di capacità di gestione, tra guerra e transizioni, globalizzazioni e autocrazie.

«Abbiamo bisogno di leader efficaci ai vertici della politica, ma anche nella pubblica amministrazione locale, nazionale e internazionale. Abbiamo bisogno di leader nelle aziende, negli enti sociali, nelle associazioni del volontariato, nelle organizzazioni non governative: ovunque ci sia un gruppo, anche piccolo, di persone che lavorano assieme». Il leader deve essere inclusivo e non deve avere paura di mettersi in discussione; «che sappia delegare porzioni di sé verso i migliori che la circondano», avverte Antonio Funiciello. Ma anche «che diffidi delle proprie intuizioni e creda nel lavoro dell’organizzazione e della pianificazione; che sappia affrontare il male, quando serve, perché il bene prevalga; che rispetti i propri avversari, come parte essenziale della comunità a cui sente di appartenere; che vada controcorrente». I sei leader hanno preso di petto la storia e impresso una trasformazione duratura del loro paese.

Meir è diventata da immigrata in Palestina a manager dell’immigrazione. La sua leadership ha iniziato a formarsi nella gestione socialista del kibbutz di Merhavia. Credeva in Israele sopra ogni cosa. Divenne premier nel mezzo della guerra con l’Egitto. Motivava spesso chi le stava intorno, ma ha fatto anche qualche errore. Ad esempio, non colse immediatamente i segnali che Anwar Sadat inviò al mondo testimoniando un cambio radicale con il suo predecessore in Egitto. Tuttavia, è pur vero che il leader egiziano non voleva ancora riconoscere formalmente lo stato di Israele. E a Sadat, ricorda Antonio Funiciello, andavano concessi dieci centimetri di Sinai – più immaginari che reali – per metterlo in condizione di trattare con Tel Aviv.

Truman ebbe l’intelligenza di sapere delegare. La capacità di trovare validi collaboratori a diversi livelli è cruciale per un leader. Trasferire le quote del comando vuol dire valorizzare la squadra. Truman arrivò al punto di rinunciare a battezzare con il proprio nome il piano Marshall. Considerato un piccolo politico di professione prima della presidenza, era sottovalutato anche perché era sconosciuto agli americani e al mondo. Poi incarnò il sogno di Franklin Delano Roosevelt: ricostruire l’Europa e ampliare il potere degli Stati Uniti all’estero. La logica punitiva adoperata contro gli sconfitti dopo la Prima Guerra Mondiale venne abbandonata dalla sua amministrazione. George Marshall divenne l’uomo più stimato negli Stati Uniti, il che simboleggiava la capacità di Truman di saper promuovere una leadership non-autocentrata.

Cavour era un grande pianificatore; ebbe intuizioni fulminee e diffidava dell’istinto. Fu in grado di trovare compromessi tra i liberali di destra e di sinistra. Quello che passerà alla Storia come il famoso connubio caratterizzò la sua corta premiership. Intriso di passione politica, il gusto della polemica e della identità risorgimentale il Conte aveva fiducia nel processo scientifico e nell’europeismo. Il suo Piemonte era un laboratorio di innovazione politica. Cavour capì l’esigenza di sprovincializzare il dibattito sull’Unità d’Italia e intuì che il posto di Roma era accanto a Londra e Parigi contro le potenze illiberali. Il piccolo Piemonte divenne motore per la futura Unità già ai tempi della guerra di Crimea, a cui il paese partecipò per guadagnarsi un ruolo politico. Per essere invitati alla conferenza di pace occorreva partecipare alla guerra. Capacità di visione politica e pianificazione, ma anche improvvisazione erano le sue caratteristiche.

Lincoln è stato forse il più grande presidente americano di sempre. Vide l’obiettivo nazionale per assicurare la vittoria unionista di abolire la schiavitù e non lesinò energie per il conseguimento dei suoi obiettivi. Partito del nulla, era un autodidatta nella formazione intellettuale e pioniere dell’apprendistato politico. Anche con diversi membri del suo partito ostili alle sue idee, riuscì a far trionfare la sua visione politica. Il leader degli abolizionisti, Thaddeus Stevens, commentò che la più grande legge del diciannovesimo secolo, quella dell’abolizione della schiavitù, è passata attraverso la corruzione promossa dall’uomo più puro d’America. Lincoln aveva infatti affidato il lavoro di persuasione e di compravendita al suo segretario di Stato William Seward, già suo avversario ad una convention a Chicago, ma poi fedele alleato.

Secondo Antonio Funiciello, Mandela è il più grande dei leader recenti. È stato tenuto in carcere per quasi trent’anni e poi fece un accordo con i politici che lo avevano tenuto dietro le sbarre. L’invenzione della Commissione per Verità e Conciliazione fu una mossa geniale quanto controversa. Mandela voleva costruire una nuova Repubblica democratica fondata sul rispetto delle libertà fondamentali della persona in una società democratica e multietnica. Sapeva che i Boeri avevano l’esercito e le forze di polizia: dunque dove trovare un compromesso. Studiò la storia degli afrikaans e trattò con il Primo Ministro afrikaner Frederik de Klerk. Mandela si era sempre speso in continuità con una leadership indesiderabile, per il dialogo. Il reciproco riconoscimento è la chiave per la pacificazione sociale.

Quanto ad Havel, che Antonio Funiciello definisce il Mandela europeo, non ha avuto in Repubblica Ceca lo stesso trattamento di santificazione che ha avuto Mandela in Sudafrica. Havel era uno che andava controcorrente. La sua traversata nel deserto fu lunga; per anni fece avanti indietro dal carcere. Da presidente della Repubblica guidò il paese fuori dal comunismo per farlo approdare alla democrazia; dal Patto di Varsavia alla NATO. Leader poeta, accompagnò la separazione pacifica tra cechi e slovacchi. «È difficile trovare in Europa un altro leader che abbia cambiato in meglio il suo paese come Havel, umile e permanentemente sospettoso di se stesso. Da buon leader seppe prendere decisioni impopolari». La sua leadership era nata dall’anticonformismo della dissidenza. Un leader anzitutto è un leader che impopolare.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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