Commento

Episodi sparsi e sconnessi sul secolo autoritario

Il secolo di autoritario (Rizzoli 2023) di Paolo Mieli è una raccolta di piccoli episodi – schegge del Novecento – su questioni legate alle dittature e alle autocrazie del secolo scorso. Il volume non ha un filo logico. Diviso in tre macro-capitoli, appare come un collage di letture fatte dall’autore nel corso dell’anno. Il sottotitolo del libro, poi – “Perché i buoni non vincono mai” – sembra non avere riscontri nel corso dell’opera. «Il Novecento può essere definito il secolo autoritario», esordisce Mieli. Oggi ci sono i richiami di questo secolo, nonostante l’onda di ottimismo del 1989 e prima della grande pace del Dopoguerra. «Le imprese militari dell’Occidente successive al 1989 si sono concluse con un insuccesso. Insuccesso che ha provocato come contraccolpo un progressivo senso di insicurezza, un crescente venir meno delle certezze identitarie». Oggi «è doveroso chiederci se come autentico “secolo autoritario” non vada più considerato il Novecento, ma piuttosto quello attuale».

Il primo episodio è il patto di non-aggressione Molotov-von Ribbentrop dell’agosto 1939, che definiva le sfere d’interesse. Londra e Parigi erano a conoscenza della data dell’aggressione alla Polonia, occupata non solo dai nazisti, ma anche dai sovietici. Seguì il rimpatrio in Germania di diverse centinaia di comunisti tedeschi che si erano rifugiati in URSS. Consegnati sul ponte di Brest-Litovsk, vennero mandati nei campi di concentramento nazisti. Mieli parla anche dell’Italia fascista e dell’intenzione del governo di stabilire un trattato con l’URSS di amicizia e neutralità. Ci si avventura poi negli ultimi giorni del Terzo Reich. Poi l’autore passa al Dopoguerra, ai processi Auschwitz e al ruolo di Fritz Bauer, dunque al processo Eichmann. Tornato in Italia, Mieli passa alle critiche di Gaetano Salvemini nei confronti del “ministro della mala vita” Giovanni Giolitti.

Poi c’è un secondo macro-capitolo che compie una vasta digressione sui Greci, per riprendere il filo dopo decine di pagine con Guglielmo II, l’ultimo Kaiser dell’impero tedesco. Mieli ne ripercorre la storia e le origini della sconfitta tedesca nella Grande Guerra. Le simpatie filonaziste del Kaiser, il lungo esilio a Doorn. Si parla poi di Leopoldo II del Belgio e della pesante eredità questione coloniale. Salto indietro nel tempo, a Adam Smith, che diceva che la schiavitù non era produttiva e andava abolita giacché il capitalismo è incompatibile col lavoro forzato. Un ultimo capitolo è dedicato ai semi di autoritarismo futuro. Si parla della Cina, ovviamente. Poi di Achille Silvestrini, testimone della Ostpolitik della Chiesa nella seconda metà del Novecento. Le questioni di convivenza tra cristiani e musulmani e il fenomeno del terrorismo. Il terrorismo arabo-palestinese e le Olimpiadi di Monaco.

Concludendo questa carrellata di episodi sparsi e sconnessi, Mieli rafforza la sua tesi del secolo autoritario. I regimi autoritari hanno preso il sopravvento, dice. Le illusioni che la democrazia potesse durare per sempre sono tramontate. Il nostro secol avrebbe imboccato una traiettoria discendente. Su questo ha fatto riflessioni interessanti Mario Vargas Llosa alla biennale di Guadalajara (maggio 2023). Allo stato attuale non solo autoritarismo e guerre minacciano la libertà e la cultura, ma anche «la deformazione accademica della cultura della cancellazione», quella «sorta di dittatura del pensiero unico che impedisce il libero scambio delle idee nelle università, nei media, nei social network nel nome della correttezza politica e del fanatismo identitario». Un’onda potente che «esercita una censura nei confronti del pensiero e della cultura contemporanei», provocando una sorta di “abolizione del passato”. Ovvero, l’abolizione «delle espressioni culturali che da secoli fanno parte dell’eredità della civiltà».

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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