La cinquina finalista del Premio Strega Poesia 2025
Sono stati annunciati i libri finalisti del Premio Strega Poesia 2025, promosso da Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e Strega Alberti Benevento, in collaborazione con BPER Banca e con Tirreno Power, media partner RAI, sponsor tecnici Librerie Feltrinelli e SYGLA.
Ecco i cinque libri finalisti e le relative motivazioni:
Alfonso Guida, Diario di un autodidatta, Guanda. Un io, la sua terra, le esperienze vissute sono i fili che tessono insieme la trama di una vita, che in questa poesia si espone e si mette a disposizione dell’ascolto dell’altro, attraverso una lingua di “pietra” fatta dell’aspro paesaggio della Lucania. Un’immersione nel sé («figura di troppi lati»), nella sua profonda solitudine, senza narcisismi e certezze, è il punto di confluenza ed esplosione tra vita e scrittura in “Diario di un’autodidatta”. In queste pagine echeggiano voci di memorie familiari, di amori vissuti, di traumi accumulati negli anni, e anche di fantasmi: «Parlavo strambi linguaggi di vento». In un confronto che si fa duro e nudo: «La strada non c’era, ma ho cominciato / presto a camminare. Non c’era niente. / Solo un vuoto orrido da cui pendevo. / Questo sentirmi attinto da un coltello». Versi che possono evocare la voce di una Amelia Rosselli (“Non ho un mondo pronto per me e così parto per un mondo meno pronto per me”), ma anche quella di altri che sono chiamati ad accompagnare i passi inquieti del poeta. Un andare avanti, dettato da un ritmo interiore, da un disseppellire e dissipare, che diviene una complessa operazione in cui la parola materica si fa sonda («Sondare è scarcerare») di una condizione esistenziale; insomma, uno scandagliare e perforare obliquamente, perché è «da una tregua spaventata», «da una riva» che Alfonso Guida scrive, in una soglia in cui tutti possiamo affacciarci e riconoscerci.
Giancarlo Pontiggia, La materia del contendere, Garzanti. “La materia del contendere” di Giancarlo Pontiggia, edito da Garzanti, è, senza esitazioni, un libro presocratico: che qui è un altro modo per dire sapienziale, della sapienza di un tempo presente e futuro in cui poesia e filosofia, strettamente unite in epoca antichissima e poi lungamente costrette a vagare separate per il mondo, finalmente possono riunirsi. Poesia pensiero, quindi, ma fatta di un dire essenziale e depurato, che cerca la natura degli elementi e insieme la natura della sua propria materia poetica: tanto che, nel parlare delle cose ultime, parla sempre anche del suo stesso farsi. Come la freccia di Zenone, questa scrittura riconcilia gli opposti elementi di movimento e stasi, in quell’operazione che compie sempre la poesia, quando è poesia.
Jonida Prifti, Sorelle di confine, Marco Saya. Non è questo il primo libro di carta di un’autrice che deve la sua notorietà – underground e sottotraccia, ci mancherebbe, ma abbastanza diffusa ormai – piuttosto al versante performativo: fra musica, spoken word, poesia sonora e declamazione più tradizionalmente “lirica”. Eppure “Sorelle di confine” si legge alla stregua di un esordio, nello sforzo di definire il più possibile una “posizione” destinata però a restare, e per fortuna, scissa e polimorfa: proprio come la biografia di chi esordisca alla scrittura in una terra e in una lingua diverse da quelle in cui è cresciuta (l’«atavismo riconquistato» – per dirla con Celan – dell’albanese si produce, così, solo a chiazze e con funzione, di nuovo, più “musicale” che narrativo-esperienziale). Decisivo è l’aggettivo che intitola il poemetto-guida Le portatrici carniche (dedicato a una vicenda toccante della memoria “di confine” di più d’un secolo fa). Al di là del toponimo, è nell’incarnazione del verbo e del mèlos che si definisce la promessa – ormai certa – d’una scrittura sfrontata e ribelle, laceratamente epica come non può non essere l’epos nel nostro tempo.
Marilena Renda, Cinema Persefone, Arcipelago Itaca. “Cinema Persefone” parla a un lettore contemporaneo già avvezzo alle riletture del mito, non soltanto in prosa. Con gli dei e gli eroi della classicità si sono già cimentati poeti del calibro di Anne Carson e Kae Tempest, producendo narrazioni in versi dense ed eloquenti. Questo libro compatto ed enigmatico si confronta invece con il periodico inabissarsi e riemergere dall’oscurità di Persefone sprofondando nel non detto anche il plot (“il mistero non si può dire”), per poi lasciar affiorare micro-eventi carichi di luce. È un cinema, quello allestito da Marilena Renda, in cui il buio è rotto a sprazzi da frammenti suggestivi. Persefone è una ragazza che di notte sogna “di dirne quattro alla madre”. Ade, bello come un divo dei giorni nostri, “porta la fanciulla a casa sua malvolentieri”. Lei gli piace molto, anche se lui ha “le foto dell’altra ancora nella galleria del cellulare”. E la vicenda è davvero tutta qui: è l’eterno accendersi, spegnersi e riaccendersi del desiderio (“Ade è vivo da sempre / desidera sempre”). Scrive Renda che “ogni cosa bella viene dall’oscurità”, anche l’amore che si fa al buio è più potente di ogni altra cosa. È la legge del sottrarsi per non appassire/ammansire, l’arte di far coincidere l’inizio con la fine. Questo ci dice una voce sapienziale vecchia come il mondo eppure straordinariamente sensuale: “se non vai all’inferno l’estate non germoglia”.
Tiziano Rossi, Il brusìo, Einaudi. Nell’ultimo quarto di secolo la scrittura di Tiziano Rossi ha alternato nuove scosse a lunghi assestamenti. All’onorevole carriera poetica riassunta da un collected del 2003 ha fatto seguito una sorprendente “svolta” in prosa, con cinque piccoli libri da ascrivere tra i più fragranti nell’écriture senza partizioni del nuovo secolo. Raccolta anche quell’esperienza nell’antologia Gli sfaccendati, è di nuovo tempo di versi. Nel frattempo però il decano della nostra poesia ha doppiato il capo dei Novanta, e così il nuovo capitolo si dice «atto penultimo», non ignaro dell’esperienza residuale dell’«io minimo» sperimentato in prosa. Negli anni Ottanta diceva un suo quasi coetaneo, Christopher Lasch, che in «epoca di turbamenti la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza», e «l’io si contrae». Quello del lungodegente autoritratto in una «corsia» beckettiana è ridotto a un «perpetuarsi» da «insetti», o altre vite infinitesime capaci solo d’un «parlottìo» o d’un «ronzìo», quale è questa sua terminale «pioggerellina» poetica. Nell’approntarsi sgocciolanti al «nuovo trasloco», si comprende infine la natura di quanto interminabilmente lo ha preceduto: «Ora il finto spettacolo è finito / la digressione».
