Editoriale

L’Italia s’è desta… nel passato?

Giorgia Meloni

Giorgia Meloni

“Meloni si prende l’Italia”, un primo piano in bianco e nero a corredo, e una certezza: «il centrosinistra paga le sue divisioni, incapace di unire le sue forze persino davanti all’arrembaggio della destra più estrema degli ultimi anni». L’editoriale apocalittico di Ezio Mauro ha così inizio: «dopo il voto bisognerà aspettare le scosse di assestamento», «il Big Bang non si arresta: Conte ha recuperato, Calenda non ha sfondato, il Pd perde terreno». L’origine del cataclisma? «Giorgia Meloni è la vincitrice» delle elezioni (si sottintende, ma non è poi così chiaro), di sicuro nella gara dei populismi: «il nazionalismo xenofobo della Lega, l’assistenzialismo e l’anti-élitismo dei Cinque Stelle», per non parlare delle «sbandate filo-putiniane» di Berlusconi e Salvini. Non si salva nessuno, per Repubblica pare esserci un unico partito rispettabile, tutti gli altri sono impresentabili.

Fortuna che c’è una cifra, accanto al volto della leader di Fratelli d’Italia che ci libera dal dubbio: Meloni “non si è presa l’Italia”, nessun golpe, che piaccia o meno, è stata votata (oggi sappiamo) dal 26% degli italiani, e insieme alla sua coalizione, da dodici milioni di elettori. Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega e Noi Moderati hanno ottenuto il 44% delle preferenze, una maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato. Si tratta di una maggioranza tra le più ampie della storia repubblicana; le elezioni politiche italiane del 2022, per la prima volta dopo quattordici anni, hanno indicato un vincitore certo: era dal 2008 che ciò non accadeva, quello guidato da Berlusconi e caduto tre anni dopo con l’arrivo di Mario Monti è stato infatti l’ultimo governo scaturito da una chiara scelta degli elettori. Si sarebbero poi succeduti, come noto, gli esecutivi di Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II e Draghi, tutti sostenuti da forze politiche che si erano presentate in schieramenti opposti alle elezioni. Il “potere” è dunque tornato al popolo che ha esercitato un suo sacrosanto diritto, «nelle forme e nei limiti della Costituzione», così come recita l’articolo uno della legge fondamentale dello Stato italiano. La sovranità popolare, principio fondante della democrazia (dal greco démos, popolo, e krátos, potere), non gode tuttavia di buona salute – gli astenuti hanno raggiunto la soglia del 36%, più di un italiano su tre ha scelto di non votare – e di buona stima: la si rispetta nella forma, ma non nella sostanza, nel momento in cui si delegittimano o demonizzano le scelte degli elettori.

Torniamo così all’editoriale di Ezio Mauro, che senza mezzi termini afferma: «il Paese con questo voto sembra aver amnistiato nell’indifferenza il fascismo storico, tanto da giudicare irrilevante il legame che in Fratelli d’Italia persiste con quel deposito di memorie e di simboli». Un “fil noir”, quello dell’eterno fascismo italiano, che lega i titoli dei media nazionali e internazionali. Meloni è una «fascista di belle speranze» per il Tagesspiegel e «il primo leader italiano di estrema destra dopo Mussolini» secondo la CNN e il Washington Post, la Süddeutsche Zeitung la definisce «erede di Mussolini», mentre per il Financial Times è la leader di «un partito radicato nell’eredità nazionalista e autoritaria del fascismo». E ancora, la coalizione vincitrice è definita di estrema destra da El Pais, dalla Bbc e dal Guardian, mentre per lo svizzero Blick è un movimento neofascista sostenuto anche da violenti neonazisti. Queste le lecite ma dubbie preoccupazioni degli osservatori, che si basano su un dato: l’inizio della militanza politica di Giorgia Meloni nel Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, partito neofascista nella Prima Repubblica, e poi – particolare non irrilevante, scarsamente sottolineato – in Alleanza nazionale, formazione nata per ripudiare l’eredità dell’ideologia fascista, e che decretò lo scioglimento del Msi nel 1995, con la cosiddetta “svolta di Fiuggi”. Quanto alla fiamma tricolore nel simbolo di FdI – già presente in quello del Msi e di AN – Giorgia Meloni ha dichiarato che «non ha niente a che fare con il fascismo, ma è il riconoscimento del viaggio fatto dalla destra democratica attraverso la storia della nostra Repubblica». Così nell’intervista rilasciata al britannico The Spectator, che in copertina riporta una caricatura della politica italiana con il titolo “Giorgia Meloni è la donna più pericolosa in Europa?”. Un interrogativo condiviso da The Economist che diventa una certezza per il tedesco Stern che così definisce Meloni: «veleno biondo, che si presenta come una semplice madre cristiana» ma mira a «trasformare l’Italia in un regime autoritario». Completa la triade attorno cui ruotano le critiche degli osservatori – partendo da dei dati certi, ma traendo delle conclusioni discutibili – il celebre motto di Meloni, che si dichiara «donna, madre, italiana, cristiana», e che va di pari passo con il tanto contestato «Dio, patria, famiglia», slogan fascista, ma prima ancora mazziniano (che tuttavia ne I doveri dell’Uomo antepone l’Umanità alla patria). Se si può dubitare della sincerità della dichiarazione di Meloni – «è una rivendicazione della propria identità, ma rispettando gli altri. Patria, famiglia sono fondamentali, come l’identità religiosa credendo però nella laicità dello Stato» – penso sia quantomeno scorretto identificare dei principi con le loro possibili degenerazioni. Sarà una «vita di merda», come vuole Monica Cirinnà, quella di chi crede in quei valori che vengono esaltati o demonizzati da come tira il vento, ma nondimeno sono i principi che guidano tutti i movimenti che si ispirino alla tradizione – di pari dignità rispetto ai partiti progressisti – e che non per forza si risolvono in posizioni estremiste.

The Spectator

Nella stampa italiana, al netto dei titoli allarmistici, mi pare dominare un certo equilibrio nei commenti. Ne il Manifesto, dove pur campeggia in primo piano una foto di Meloni che evoca il gesto del saluto romano, si definisce l’esito del voto un «terremoto storico» che vede come vincitrice «una forza orgogliosamente erede del Msi, cosa molto diversa da un partito fascista» (Andrea Colombo). “L’Italia va a destra” è invece il titolo de la Stampa, dove si legge che «gli italiani che hanno votato Meloni non lo hanno fatto per nostalgia del fascismo o perché la considerino fascista, cosa tra l’altro dubbia» (Marcello Sorgi). Per Il Tempo “Tocca a Giorgia”, «candidandosi, di diritto, ad essere la prima donna premier della Repubblica italiana». Guardando alla stampa svizzera, la Neue Zürcher Zeitung, se nel titolo si chiede se un nuovo regime autoritario possa instaurarsi in Italia, conclude che sia improbabile il ritorno di una dittatura fascista: «oggi il Paese è molto diverso da quello che era negli anni Venti, le sue strutture democratiche sono consolidate e l’Italia, in ambito politico ed economico, è fortemente integrata in Europa».

L’Italia, dunque, con la vittoria di Giorgia Meloni, ripiomba nel passato? Sicuramente sì: è ancora troppo lontana dalla forza intellettuale di chi nei primi anni 60 condannava sia il fascismo sia il fascismo degli antifascisti, e così vicina al sonnecchiante Peppone che in Don Camillo monsignore… ma non troppo inveisce in Parlamento al grido di “fascisti!”. Un grido vuoto che alimenta il consenso che si vorrebbe distruggere, che banalizza una triste pagina della storia italiana, e che involontariamente minimizza il vero coraggio di chi ha combattuto in prima linea quella dittatura, a costo della propria vita, e non con un tweet.

Lucrezia Greppi

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