Teatro

Voci del silenzio e sogni mai sognati nello spettacolo di Tindaro Granata

Vorrei una voce - Tindaro Granata

Tindaro Granata

Tindaro Granata con il suo spettacolo Vorrei una voce, andato in scena al Foce, ha suscitato emozioni, toccato le profondità dell’anima, interpretato e tessuto tra loro, racconti di vita di cinque detenute: Assunta, Gessica, Sonia, Vanessa e Rita. Non erano presenti fisicamente sul palcoscenico ma lo sono state attraverso la recitazione di Granata, che ha ripercorso tracce di vita, si è calato nei loro panni, ripercorrendo proprio il progetto teatrale nato nel carcere di Messina.

Le loro esistenze si sono intrecciate a doppio filo con quella di Granata, il quale, senza falso pudore, è uscito, a tratti, dalla recita pur restandone fedele, mettendosi letteralmente a nudo, dando voce all’interiorità, in un monologo, recitando se stesso, parlando di lui, delle esperienze di quando era bambino, sofferte e toccanti. Ha ricordato l’amore giovanile, il rapporto con i genitori, di quando, pur avendo una vita appagante, ha provato il vuoto esistenziale di realtà prive di senso. Ha rivelato la sua verità, scoperchiando il velo dell’ipocrisia, la natura omosessuale; ha mostrato i suoi seni, nel corpo di un uomo, ha dato voce a una condizione, ha liberato se stesso dalla prigione mentale, coinvolgendo il pubblico, di fronte al quale si è seduto, interpellandolo. Un pubblico che ha trattenuto il respiro, restando immobile di fronte a una testimonianza dirompente, che ha perforato il muro del silenzio. In un continuo riflesso nello specchio e nei vissuti delle detenute, Granata ha vestito, a turno, i loro panni, calandovisi dentro, portando in scena il dialetto siciliano; raccogliendo pezzi di donne andate in frantumi per aver fatto scelte sbagliate, imposte dal destino o dalla loro condizione di vita, che le ha condannate, sin dalla nascita, portandole a delinquere, finendo per essere giudicate e incarcerate. Ha indossato quegli abiti, ha riempito di senso i vestiti ricamati di strass, simboleggiati sul palcoscenico da indumenti luccicanti, per ridare dignità, femminilità e sensualità alle detenute, facendo rivivere sogni e desideri, mettendo in scena le emozioni, con il play back delle canzoni di Mina: la Voce per eccellenza. Tindaro ha attraversato e ripercorso in punta di piedi, nel rispetto del dolore, lo spazio carcerario, vi è entrato con la paura di non essere capito quando ha proposto alle ragazze la realizzazione dello spettacolo. Ma quando la sua sensibilità femminile è entrata in contatto con la loro, le storie vere di queste donne, che hanno perso la capacità di sognare, sono state riscattate, liberate dal giogo dei pregiudizi, esibendosi realmente sul palcoscenico.

Vorrei una voce - Tindaro Granata

Tindaro Granata in “Vorrei una voce”

L’originalità dello spettacolo è quella di aver dato voce, con autenticità, e senza l’artificio della finzione, all’interiorità e all’intimità di Granata e a quella delle detenute, attraverso la recitazione, che è finzione ma è anche vita vera, perché la vita è una recita e la recita è vita. Perciò lo spettacolo, per certi aspetti, è stato salvifico, essendo stato anche, a momenti, un atto terapeutico, per chi lo ha sentito e accolto nella sua potenza, accettando di essere messo di fronte al mistero della vita, con la sua tragicità ma anche con la sua ironia. E a dimostrarne l’impatto sono stati gli applausi ripetuti del pubblico gremito, di spettatori che si sono alzati in piedi, di voci di acclamazione, che hanno tributato la loro approvazione. Da quando frequento il teatro Foce non avevo mai assistito a una simile esultanza. Dopo lo spettacolo ho raccolto alcune impressioni che hanno tutte risuonato all’unisono, nel sostenere che è stato grandioso e coinvolgente. La scrittura teatrale di Tindaro Granata è prima di tutto una scrittura e una recita esistenziale, che si riverberano in quella teatrale e viceversa.

Vorrei una voce - Tindaro Granata

Tindaro Granata

Vorrei una voce è arrivato fino a Mina, il mito di Tindaro Granata, sin da bambino. Il suo sogno si è realizzato perché Massimiliano Pani lo ha chiamato e lo ha invitato a casa di Mina.

Ha messo in scena l’ultimo concerto che Mina ha fatto il 23 agosto del 1978. L’idea è stata quella di entrare nei ricordi delle detenute, lavorando con le canzoni di Mina, per raccontarsi attraverso una forma d’arte.

Lo spettacolo è ispirato dall’incontro con le detenute-attrici del teatro Piccolo Shakespeare, all’interno della Casa Circondariale di Messina, nell’ambito del progetto “Il teatro per sognare”, di D’aRteventi, diretto da Daniela Ursino. Alessandro Boldini è il regista assistente. Il disegno luci è di Luigi Biondi, e i costumi di Aurora Damanti.

Nicoletta Barazzoni

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