Riflessione

Briciole di luce

Nel giorno in cui, per tradizione, si spengono le luci degli alberi natalizi e vengono riposti i suoi scintillanti addobbi, i credenti celebrano l’Epifania, l’apparizione di Gesù bambino ai Re Magi, giunti a Betlemme dal lontano Oriente inseguendo una luminosa stella. Il cammino dei tre sapienti quest’anno s’incrocia con quello del più grande viaggiatore di tutti i tempi, Marco Polo, di cui ricorrono, dopodomani, i sette secoli dalla scomparsa. I quattro indagatori dell’ignoto, come leggiamo ne Il Milione, si erano già incontrati: giunto a Saba nel 1272, il veneziano vide le tombe di Gaspare, Baldassarre e Melchiorre, e i loro corpi intatti, ancora adorni di barba e capelli. Segue il racconto che ben conosciamo, i tre doni offerti al Figlio di Dio, e una leggenda poco nota, secondo la quale i Magi ricevettero a loro volta un regalo: quella che sembrava, all’apparenza, una semplice pietra. Non restarono saldi nella fede, come voleva simboleggiare quella pietra, tantoché decisero di gettare il misterioso dono in un pozzo, da cui scaturirà una fiamma sempiterna. Un’allusione al culto del fuoco zoroastriano ma anche un invito a cercare di cogliere il significato nascosto delle cose e il loro valore.

«Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane» – così il Marco Polo immaginato da Calvino nelle sue Citta invisibili (1972) descriveva all’imperatore Kublai Khan il senso dei suoi viaggi, metafora della vita e del suo fine ultimo: saper aguzzare lo sguardo oltre l’apparenza delle cose, carpirne la loro vera essenza e cogliere quegli attimi di bellezza che emergono, inaspettati, dal disordine del mondo. Un percorso irto di difficoltà, quello nelle città invivibili del suo e del nostro tempo, che si apre con una nota di malinconia: quel «senso di vuoto» che attanaglia il sovrano, meditando sulla corruzione del suo impero, ma dove non tutto è perduto. Anche «attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare» Marco Polo coglie infatti «la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti». Nelle macerie del tempo che spesso opprimono il presente – «l’ingorgo di passato presente futuro che blocca le esistenze calcificate nell’illusione del movimento» -, il vero viaggiatore ricerca tracce, residui, frammenti di una scintilla che illumini l’oscurità. Ed è proprio con un’esortazione a riconoscere il buio che ci attornia e a ricercare la luce che si conclude l’opera calviniana: «l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Custodire barlumi di luce, cogliere schegge di felicità, raccogliere quelle briciole di speranza disseminate e nascoste nel nostro incerto cammino. E lasciarsi sorprendere dalle piccole epifanie quotidiane. È questo il messaggio di cui potremmo far tesoro per il 2024.

Piccola, azzurra aleggia / una farfalla, il vento la agita, / un brivido di madreperla / scintilla, tremola, trapassa. / Così nello sfavillio d’un momento, / così nel fugace alitare, / vidi la felicità farmi un cenno / scintillare, tremolare, trapassare. (Hermann Hesse)

Una piccola rivelazione, scattata da un semplice disegno, mi ha colto di recente, rileggendo una poesia del mio bisnonno. Tra i versi “svolazzava” una piccola farfalla blu, somigliante a quella bellissima creaturina che è il Morpho menelaus. Un insetto all’apparenza banale: se lo vediamo posato su fiore, presenta delle normali ali marroni, ma se spicca il volo ecco che rimarremmo incantati dal blu metallico iridescente del suo manto. Chiedendomi il perché di quel dipinto, che arricchiva insolitamente una delle tante poesie del mio antenato, ho quindi ricercato il significato di questo variopinto esserino. Il caso vuole che una sua simbologia la si ritrovi in quell’Oriente scoperto da Marco Polo e da cui giunsero i tre sapienti persiani: in una poesia di Hermann Hesse, che soggiornò a lungo in Oriente e ne rimase profondamente affascinato, e in una leggenda orientale. Nella poesia, il cangiante esserino simboleggia l’attimo che va colto, la fugace felicità che a volte ci sfiora, appare e scompare veloce come un battito d’ali. Nel racconto, la farfalla blu è catturata da due fanciulle, indispettite da un vecchio saggio, abile nel rispondere a qualsiasi domanda. La più giovane tra le due, trattenendo e nascondendo la farfalla nella sua mano, lo avrebbe finalmente ingannato: «se risponderà che è viva, la schiaccerò e gliela mostrerò morta. Se risponderà che è morta, la libererò e la farò volare». L’indomani la ragazza gli avrebbe posto l’indovinello, ma il sapiente non cadrà in errore: «dipende da te, è nelle tue mani», replicherà. Un racconto che ci insegna non solo a cogliere quegli attimi di bellezza che attraversano la vita, come suggerisce Hesse, ma anche a forgiarli noi stessi.

Ecco infine la poesia del mio bisnonno, viva testimonianza della forza della speranza: anche quando regna il vuoto, la miseria, il ghigno del destino beffardo può essere vinto, dal sorriso radioso di un bambino.

Lucrezia Greppi

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