Editoriale

Fragilità e coraggio

Mons. Lazzeri, Martin Krebs, Alain de Raemy

Da sinistra: il vescovo Valerio Lazzeri, il nunzio Martin Krebs, l’amministratore apostolico Alain de Raemy.

Ora è il momento di cambiare. Non tanto il vescovo (per questo c’è tempo, molto tempo, e lo stucchevole “totovescovo” proposto su stampa e tv già nei tre giorni prima delle dimissioni ufficiali è di una noia mortale) ma di cambiare uno stile e un’immagine di Chiesa luganese che rompa col passato.

Leggere giornali e ascoltare interviste che riassumevano nove anni di episcopato limitandosi a problemi amministrativi e finanziari, alla chiusura del GdP, a scandali che hanno coinvolto il clero diocesano e a limitazioni da Covid, significa che la diocesi di Lugano non ha saputo mostrare un progetto, una proposta, un cammino pastorale che – se c’è stato – non si è visto.

Neppure un avvenimento eccezionale per la Chiesa universale, come è il Sinodo in corso voluto da papa Francesco come occasione di coinvolgimento e partecipazione di tutti i battezzati (non solo praticanti) ha risvegliato dal sonno la comunità ecclesiale ticinese. O meglio, la partecipazione di quasi 150 realtà sul territorio (parrocchie, gruppi, associazioni) che hanno risposto senza veli al questionario inviato, un po’ l’ha scossa. Ma il silenzio seguito, la mancata assicurazione che i contributi sarebbero stati condivisi, la sintesi distribuita che non rispecchia i contenuti emersi, l’ha subito riportata nel suo torpore.

Per il resto, la Curia (dove paradossalmente sono i laici, e non i preti, a imporre linea e modelli di comportamento) ha ridotto i rapporti con le parrocchie a mere questioni finanziarie; ha applicato, con rigidità giuridica, norme e codici dove invece occorreva esercitare le virtù dell’ascolto, dell’accoglienza e della misericordia; ha gestito la comunicazione con censure preventive, silenzi e comunicati freddi e burocratici: il modo migliore (e i giornalisti lo sanno bene) per alimentare sospetti, indiscrezioni e polemiche.

Come cambiare

Il vescovo Alain de Raemy ha cambiato subito registro. Invece di chiudersi nella “gabbia dorata” (come l’aveva definita mons. Torti) del Palazzo curiale, ha cominciato a uscire e incontrare chi lavora sul campo. Lo ha detto anche in modo chiaro: vuole visitare tutte le parrocchie, le cappellanie, i servizi. Vuole arrivare nelle valli più discoste. Vuole conoscere di prima mano, e non per sentito dire, qual è la reale situazione della diocesi. A cominciare dai preti. Da questo clero che tutti pensavano assente e silente, e che invece ha dimostrato di esistere e di essere vivo. Ha solo bisogno di essere ascoltato e valorizzato.

La recente assemblea, alla quale hanno partecipato oltre 130 preti, ha mostrato un bisogno inespresso di conoscersi, incontrarsi, progettare insieme, sentirsi coinvolti in una pastorale viva e tra la gente. Ma, soprattutto, ha mostrato la necessità di ritrovare l’entusiasmo che li ha portati a questa scelta di vita. In questo senso, per ciascuno di loro, la straordinaria testimonianza del vescovo Lazzeri scritta in occasione delle sue dimissioni, diventa un esempio formidabile, un modello a cui riferirsi per ricercare in sé le ragioni profonde della propria vocazione e del proprio impegno.

Cambierà lo stile, dunque, ma dovranno anche essere date risposte concrete e indicazioni precise. Innanzitutto, il progetto di Reti pastorali avviato dal vescovo Valerio (fare in modo che preti e laici di una regione ragionino e operino senza trincerarsi attorno al proprio campanile, ma collaborino tra loro e si aprano a esperienze e iniziative comuni) deve diventare operativo, superando i personalismi e la voglia di fare da sé.

Poi, c’è una strada indicata da papa Francesco che deve essere finalmente imboccata anche in Ticino. La questione degli immigrati non può lasciare indifferente la Chiesa luganese, finora silente nonostante l’impegno di alcuni singoli volontari o guide spirituali presente nei centri di accoglienza. Il tema della povertà che in alcuni casi si trasforma in dramma, non può continuare ad essere lasciato nelle sole mani di un frate francescano di buona volontà (e di straordinaria capacità) ma deve diventare preoccupazione di tutti. La crisi climatica va affrontata anche con l’impegno e l’alleanza della comunità cristiana. L’economia civile e solidale, nelle mani dei giovani (l’“Economia di Francesco”), può diventare testimonianza di un altro modo di custodire la casa comune, diverso da come finora l’ha gestita la terza piazza finanziaria svizzera.

Infine, occorre proseguire il cammino sinodale avviato, facendo in modo che gli auspici e le buone intenzioni non restino lettera morta.

Per tutto questo non si può aspettare la nomina di un vescovo “ressortissant tessinois”. L’amministratore apostolico Alain de Raemy resterà a lungo in Ticino. «Sei mesi o un anno» ha dichiarato. «Almeno due anni», dice qualcuno in Vaticano. E i poteri che ha ricevuto sono noti solo a lui e alla Santa Sede, che ha tutto l’interesse a non lasciare una diocesi ingovernata tutto questo tempo. Quindi ci troveremo di fronte ad una sede vacante ma non “vuota”, come ha precisato lo stesso vescovo Alain, con una classica frase da diplomazia vaticana che lascia intendere tutto. Non sarà un manager (pessima espressione se riferita a un pastore) ma non si limiterà sicuramente all’ordinaria amministrazione.

La fragilità di preti e vescovi

Le dimissioni del vescovo Valerio Lazzeri hanno mostrato però la fragilità in cui vivono preti e vescovi oggi. Al di là della sua persona – che unanimemente è stata ricordata come generosa, accogliente, predisposta all’ascolto e all’attenzione personale – le difficoltà che ha esposto e che lo hanno portato a decidere di rinunciare a una carica così significativa sono diffuse anche oltre il Ticino.

Lo testimonia l’eco che la notizia ha avuto in tutta la Svizzera, varcando anche i suoi confini. In Italia ne hanno parlato testate nazionali come il Corriere della Sera o Avvenire. E i commenti sui social provenienti da diverse diocesi, arricchiti da testimonianze personali, hanno rivelato un malessere diffuso, con preti (e vescovi) che si trovano a vivere solitudini, incomprensioni, isolamenti, perdita di credibilità e di riconoscimento sociale.

In questo senso, la coraggiosa “confessione” di mons. Lazzeri ha un grande valore. Quella «fatica interiore» alla quale ha fatto riferimento è un appello accorato affinché tutti possano riflettere su una condizione sociale che, da vicinanza e sostegno spirituale alle persone, si è fatta a sua volta bisognosa di sostegno e di accoglienza.

La decisione di dimettersi – ha detto – è maturata in questo ultimo anno. Più precisamente è avvenuta nei primi mesi del 2022, per poi essere formalizzata e inviata a papa Francesco in giugno. È probabile che leggendo i contributi sinodali della Chiesa reale rispetto a quella idealizzata che gli veniva raccontata, si sia reso conto della impossibilità da parte sua di portare a termine una missione che già quando gli era stata proposta nove anni fa gli aveva dato un senso di vertigine. Ora tornerà a dedicarsi agli amati e interrotti studi sui Padri della Chiesa, ritirandosi magari in un luogo appartato fuori dal confine ma pur sempre su un lago ticinese. Ovunque sarà, però, siamo certi che resterà un punto di riferimento solido e disponibile per coloro che a lui si rivolgeranno.

Luigi Maffezzoli

Una copia dell’edizione 42/2022 con l’editoriale è prelevabile previa introduzione di un indirizzo e-mail valido.

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