Editoriale

Processo di Norimberga: giustizia e conti con la Storia

Gli incontri del NSDAP a Norimberga assomigliavano a riunioni semi-religiose caratterizzate da perversi rituali magici e pagani attraverso cui il popolo germanico veniva rigenerato, purificato e preparato alla guerra ideologica di matrice nazionalista. Era a Norimberga che i nazisti erano forti elettoralmente. Là dove le leggi razziali erano state emesse nel 1938 ed esportate nei paesi alleati o sottomessi. Là dove nei lunghi rally del partito le famiglie portavano i pargoletti con caschetto e treccine bionde in tripudi ariani. Là dove puntualmente si verificava l’incarnazione messianica di Adolf Hitler, che in aereo scendeva dal cielo e veniva accolto dalla “Cavalcata delle Valchirie” dell’antisemita Richard Wagner e dalla telecamera celebratrice della cortigiana-film maker di corte Leni Riefenstahl. Là dove si tenne il processo contro i responsabili delle più grandi atrocità mai commesse dall’uomo sull’uomo. Il 20 ottobre 1945, a Norimberga, il Nazionalsocialismo precipitò dal tribunale all’inferno della Storia: iniziava il processo ai gerarchi che per dodici anni avevano consentito la barbara uccisione di milioni di “indesiderati”; il termine genocidio venne coniato solo dopo il processo.

Il processo di Norimberga avvenne con l’opposizione di Stalin: non abituato alle regole dello Stato di diritto per le quali anche il criminale più incallito ha diritto ad essere giudicato in una corte, il dittatore georgiano – ammesso ai tavoli di Yalta e Potsdam specialmente per l’enorme tributo umano che ha offerto al mostro nazista – voleva un plotone di esecuzione contro i gerarchi nazisti. Fu Winston Churchill, rappresentante-eroe di una Gran Bretagna stremata, che si mise di traverso: esecuzioni sommarie non sarebbero mai state digerite dall’opinione pubblica dell’isola. Ad ogni modo, questo non fermò il naturale corso della Storia e non smentì quello che lo stesso Hitler aveva prognosticato nell’estate del 1944: «La fine della Germania sarà orribile e i tedeschi se la saranno meritata.» Molti grigi burocrati nazisti di mezzo la scamparono, molti collaborazionisti non emersero mai; la gran parte dei perpetratori, gli indifferenti, dopo la guerra ricominciarono una vita in tutta serenità. Quanto ai gerarchi, molti sfilarono a Norimberga. Alcuni si erano nascosti, altri furono sorpresi nel bel mezzo di una fuga, altri ancora tentavano in clandestinità di intraprendere una nuova vita.

Con il crollo del Nazionalsocialismo lo Stato tedesco doveva essere ricostruito ex novo. Le differenze con la sconfitta nella Grande Guerra risiedono proprio in questo elemento: ricostruire l’architettura dello Stato. Secondariamente, l’Impero tedesco di allora non era animato da un’idea-forza come quella del Socialismo nazionale, quanto da un imperialismo comune agli stati europei del tempo. Pertanto, nel 1919 a Versailles i big dell’Impero – il Kaiser Guglielmo II, i generali Paul von Hindenburg ed Eric Ludendorff e l’ammiraglio Alfred von Tirpitz – non pagarono alle forche di una Norimberga; d’altra parte, i crimini commessi dall’intera classe dirigente guglielmina non erano paragonabili agli orrori della generazione successiva. Al contrario, al termine del più sanguinoso conflitto della Storia, i vertici della Germania post-hitleriana venivano simbolicamente processati nella “città delle cento torri”. Robert Jackson – giudice della Suprema Corte statunitense – venne appuntato da Harry Truman come architetto del processo. I capi d’accusa? Crimini contro l’umanità, crimini di guerra e contro la pace. Tutti confermati. Tra il pubblico delle aule di Norimberga, oltre che a decine di giornalisti da tutto il mondo, anche il sindaco di New York, Fiorello La Guardia, nonché i ministri degli esteri dei paesi alleati: Cordell Hull per gli Stati Uniti, Anthony Eden per il Regno Unito e Vjačeslav Molotov per l’URSS.

Gli imputati vennero privati di qualsiasi dispositivo che potesse essere utilizzato come arma di suicidio: via occhiali e lamette per tagliarsi le vene, via corde e cinture per un’eventuale auto-impiccagione in cella, via fiale e anelli per soffocarsi. Fu un dramma per l’imputato numero uno, Hermann Göring; proprio lui, il vanaglorioso Feldmaresciallo che di anelli, nelle feste private al vertice dello Stato nazista, ne indossava uno per dito. Come l’ex Ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, al processo il corrottissimo capo della Luftwaffe attrasse l’odio dei suoi colleghi alla sbarra: mentendo in primis a se stesso, spiegò ai giudici che aveva fatto di tutto per prevenire la guerra in Europa e che non intendeva assoggettare altri popoli. A Norimberga i gerarchi stavano male fisicamente: lo stesso ex Presidente del Reichstag aveva disfunzioni cardiache legate all’obesità; Hans Frank – governatore della Polonia durante l’occupazione – aveva una paralisi alla mano sinistra; Alfred Rosenberg – teorico del Nazionalsocialismo – aveva lombaggine e artrite; Walther Funk – ex Ministro dell’Economia ed ex Presidente della Reichsbank – aveva dolori alla prostata; Wilhelm Keitel – già capo della Wermacht, che aveva segnato la resa della Germania – dissenteria; Julius Streicher – ex direttore di Der Stürmer – una paralisi alla gamba sinistra; Ernst Kaltenbrunner, ultimo capo della Gestapo, aveva avuto un’emorragia cerebrale per cui passò i primi quattro mesi del processo in ospedale.

Niente forchetta e coltello nelle celle: solo il cucchiaio per mangiare; quel cucchiaio che i detenuti nei campi di concentramento non avevano se non facendo ricorso al mercato nero, dunque scambiando un prezioso tocco di pane per l’utensile da minestra. Ai gerarchi venne presentata una lista di avvocati, alcuni dei quali scartati dagli imputati perché ebrei; poi test del QI e traduzioni simultanee durante le deposizioni. Nelle quali nessun gerarca mostrò rimorsi e anzi, come fece l’ex governatore dell’Olanda Arthur Seyss-Inquart, tutti negarono tutto. Le scuse? Era il mio dovere, dovevo servire il mio paese, non potevo disobbedire al mio superiore; scuse risibili per chi, come i gerarchi, era superiore dei superiori. La banalità del male, certo, ma anche la banalità delle scuse. Nella più brutale coerenza, i gerarchi nazisti a processo non vollero perdere la faccia, ma nel disegno hitleriano c’erano tutti fino al collo. Per questo, furono condannati dalla Storia, prima che dal tribunale.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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